Spazio relazionale: per un’etica dell’altro
…di Ivano Frattini
Nell’articolo scorso di questa rubrica è stata affrontata la tematica del bene relazionale, termine, questo, coniato dalle scuole di economia relazionale.
Vorrei iniziare ponendo subito una questione: il bene relazionale, descritto come un valore intrinseco alla relazione, mi trova in perfetto accordo, ma è corretto chiamare la relazione con il termine “bene”? Questo a mio avviso potrebbe creare dei malintesi, credo che d’istinto non si pensi al “bene” platonico, ma al bene materiale. Tuttavia in questo modo si rischia di concepire la relazione come un oggetto da acquistare o da aggiungere alla lista dei consigli per gli acquisti, che secondo la folle logica moderna ci porterebbero, accumulandoli, alla felicità.
Ma siamo proprio sicuri che questo corrisponda al vero? E la relazione è proprio necessaria pensarla in termini di “bene” o addirittura come acquisizione di qualcosa che prima non c’è e poi viene raggiunta o addirittura acquistata?
Sembrerebbe appartenere al senso comune la convinzione per cui le cose a cui ci volgiamo e che ci circondano siano dotate di una loro autosufficienza in virtù della quale ciascuna per essere quella che è non ha bisogno di altro da sé, o ancora meglio qualsiasi cosa per essere ciò che è non ha bisogno di stare in qualche rapporto con qualcos’altro che non sia sé: ciò che è tale in virtù di sé e non di altro.
Ma Il principio di fondo è invece che l’essere umano è un essere in relazione. Il tutto attraverso tutto è la forma radicale di una frase di Eraclito dove si constata la illacerabile relazionalità della vita. Se le parti sono necessariamente legate fra di loro e non sommanti l’apparire di una parte non può non far scorgere l’apparire del tutto. Ma l’incontro con l’altro e con l’alterità è da sempre un arduo problema: se non lo è in linea di principio, lo è di fatto e in modi tanto convulsi, conflittuali, cruenti, che ci inducono a ritornare sempre disperatamente su questo tema.
Nasce l’esigenza di aprire finalmente e di allargare un orizzonte in cui ci è consentito di praticare un “etica dell’altro”. Cosa quanto mai urgente nella nostra epoca, vista la scarsa serietà che si avverte in maniera sempre più preoccupante nei rapporti interpersonali. Si ha l’impressione che se ci si accontenta di dirci (senza negarne la validità, anzi) che è un “bene” è un valore la nostra relazione al prossimo e che può essere “semplicemente” costruita, e che basta trovare le risorse e la buona volontà per la costruzione, non avremmo fatto grandi passi in avanti, non almeno utili a confrontarci con le forze che attivamente e poderosamente operano per smontare quanto intendiamo costruire.
Vale la pena riflettere per giunta su che cosa abbia finora impedito la realizzazione di un bisogno così diffusamente percepito e condiviso, un bisogno perseguito da sempre con tanta convinzione e tanta determinatezza da individui, gruppi, e popoli interi. Perché il valore del alterità resta ancora un ideale piuttosto che un modus vivendi? Questo apre un’altra domanda: l’altro, il nostro prossimo, è davvero comprensibile e ospitabile soltanto a condizione che si progetti e si inventi la giusta via che ci conduca a lui?
Spieghiamo ciò che è fondamentale: la necessità del alterità, l’essenza della relazione con l’altro, non va analizzata né vissuta come, semplicemente, una meta da raggiungere, non è semplicemente l’oggetto di un bisogno né il risultato di una iniziativa. Essa ci è già data. Deve esserci già data, prima ancora che la cerchiamo o la troviamo. Se così non fosse qualsiasi appello al rispetto e all’apprezzamento della differenza avrebbe il senso di una previsione meteorologica, cioè di un punto di vista approssimativo, fallibile per definizione.
Per capire come mai a tanta esigenza, a tanta effusione di forze e di nobili aspirazioni a favore di un’etica del alterità, corrispondano troppo spesso esiti così esigui e deludenti, per cominciare a valutare l’entità di un tale scarto tra ideale e reale, è necessario sapere che da sempre e per sempre siamo legati all’altro. Al punto che proprio perché l’altro ci è consanguineo, inseparabilmente ed essenzialmente compagno, ciascuno di noi in realtà è già anche l’altro, è altro da sé. Noi stessi siamo già così avvinghiati a un che di altro che risultiamo altro dall’essere semplicemente e francamente noi stessi. Niente di paradossale, allora, se, considerati in generale e in grande, i nostri comportamenti finiscono per assomigliare a quelli di una personalità scissa, se neppure noi stessi vogliamo quello che facciamo e facciamo quello che vogliamo, se vediamo dentro di noi durare tra l’essere e il dover essere una guerra senza fine, come ci sussurra una qualche residua coscienza morale e ci grida il dilagante disagio esistenziale psicologico.
Per porre tale evidenza del nostro “essere altro” possiamo semplicemente sforzarci di coglierlo e di lasciarlo essere in luce e cercare di essere consapevoli del sempre pericolo sovrastante che la nostra onnipotenza il nostro narcisismo di esseri umani con la volontà nel bene e nel male di dominare tende sempre a cercare di obliarlo. Bisognerebbe che riuscissimo a capire che se non ci fosse l’altro, l’alterità non ci sarebbe neppure quell’operazione di negazione dell’altro che mi serve per costituirmi come io, desiderante che significa divenire se e solo essendo fuori di sé e di divenire fuori di sé solo essendo se.
Essere una identità vuol dire avere la certezza di essere innanzitutto se stesso. Ma insieme significa anche la certezza, in verità non meno urgente della precedente, di essere se stesso soltanto in quanto negazione di altro. Solo perché fuori di noi stessi c’è una alterità noi ci identifichiamo, e identificandoci emergiamo nella nostra irripetibile differenza. Quindi se l’essere se stessi si fonda sul differenziarsi, ciò che dà il fondamento, il principio su cui si fonda il me stesso è l’altro.
„Alla luce di tali considerazioni si pone urgente la questione del rapporto fra il soggetto, l’individuo e la società o per meglio dire il rapporto spesso visto in maniera dicotomica fra il singolo e il gruppo e in quali rapporti cronologici dobbiamo considerarli, ovvero viene prima l’individuo o il gruppo?“
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