Era un uomo difficile.
Pensava ed agiva in modo diverso da tutti noi. Metteva in discussione ogni cosa.
Era un ribelle, un profeta, uno psicopatico, o un eroe?
“Chi può dire la differenza?”, dicevamo.
“E che importa ad ogni modo?”
Così lo socializzammo.
Gli insegnammo ad essere sensibile all’ opinione pubblica e ai sentimenti altrui.
Facemmo sì che si conformasse.
Ormai era piacevole vivere con lui.
Si era inserito.
Ciò che avevamo realmente fatto era stato insegnargli a vivere secondo le nostre aspettative.
Lo avevamo reso controllabile e docile.
Gli dicemmo che aveva appreso il self-control.
Ci congratulammo con lui per l’ acquisita padronanza di sè.
Anche lui iniziò a congratularsi con se stesso.
Non si rendeva conto che eravamo stati noi a conquistare lui.
Un omone entrò nella stanza affollata e gridò.
“C’ è quì un tizio di nome Luigi?”
Un omino si alzò e disse:
“Sono io Luigi”.
L’ omone quasi lo uccise.
Gli spezzò cinque costole,
gli ruppe il naso, gli fece gli occhi neri,
lo gettò a terra ridotto a uno straccio.
Poi uscì con passo pesante.
Dopo che se ne fu andato, vedemmo stupiti
che l’ omino ridacchiava tra sè e sè:
“Gli ho fatto fare la figura dello stupido”,
si diceva sottovoce.
“Io non sono Luigi! Ah, ah!”.
Una società che addomestica i suoi ribelli ha trovato la pace.
Ma ha perso il suo futuro.
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