Mediazione in condominio, torna il rischio unanimità
Da settembre la disciplina sulla mediazione obbligatoria per le controversie civili che è stata reintrodotta per effetto dell’art. 84 del c.d. "Decreto del fare" (convertito dalla legge n. 98/2013) e così, per le cause condominiali, ha iniziato a trovare applicazione il nuovo art. 71-quater disp. att. codice civile introdotto dalla legge n. 220/2012 di riforma del condominio. Alcune fra le norme contenute nell’art. 71-quater sono servite a risolvere varie criticità presenti in precedenza nella mediazione obbligatoria, ma la maggioranza assembleare prevista per approvare la proposta conciliativa presenta ulteriori profili problematici che possono arrivare a comportarne perfino l’incostituzionalità.
Infatti da un lato l’art. 71-quater ha opportunamente precisato (comma 1) che per controversie in materia di condominio, ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del D.Lgs. n. 28/2010, si intendono quelle derivanti dalla violazione o dall’errata applicazione degli articoli 1117/1139 e degli articoli 61/72 disp. att. codice civile, dall’altro ha introdotto (comma 2) un criterio di competenza territoriale, stabilendo che la domanda di mediazione deve essere presentata, a pena di inammissibilità, presso un organismo di mediazione ubicato nella circoscrizione del tribunale nella quale si trova il condominio e inoltre, per quanto riguarda il termine di durata della mediazione (al massimo di tre mesi), il comma 4 stabilisce che, quando i termini di comparizione davanti al mediatore non consentono di assumere la delibera relativa al conferimento dell’incarico all’amministratore, il mediatore deve disporre, su istanza del condominio, una idonea proroga della prima comparizione.
Ma l’aspetto più problematico dell’art. 71-quater riguarda invece la previsione (comma 5) secondo cui la proposta di mediazione deve essere approvata dall’assemblea con la maggioranza stabilita dall’articolo 1136, comma 2, codice civile (costituita da un numero di voti che rappresenti la maggioranza degli intervenuti e almeno la metà del valore dell’edificio); il problema nasce dal fatto che questa maggioranza si pone in contrasto con la giurisprudenza consolidata secondo cui, nelle decisioni condominiali, è comunque indispensabile il consenso di tutti i condomini, senza esclusioni, per deliberare una transazione (Cass. 2297/1996, Cass. 4258/2006 e Cass. 7094/2006).
L’accordo conciliativo, nonostante la sua denominazione, in concreto determina, nell’ambito di una controversia, un risultato analogo a quello di una transazione; e nel condominio, nonostante la presenza di un unico soggetto formale (il condominio), di fatto tutti i condomini che ne fanno parte mantengono un uguale ed incomprimibile diritto di accettare, o meno, l’accordo conciliativo. Si ripresenta così, anche in questa situazione, l’aspetto caratteristico della intera disciplina condominiale che è diretta a tutelare sempre ciascun condomino dagli abusi della maggioranza.
E se si obiettasse che la maggioranza prevista dall’art. 71-quater, comma 5, disp. att. corrisponde in concreto alla stessa maggioranza richiesta dall’art. 1136, comma 4, codice civile, per la approvazione delle delibere relative alle liti attive o passive, va rilevato che però in questo secondo caso il condomino che dissente rispetto al voto della maggioranza comunque dispone, per un verso, del diritto di mantenere separata la propria responsabilità, ai sensi dell’art. 1132 codice civile, qualora l’assemblea deliberi – in modo illegittimo od anche solo inopportuno – di agire o resistere in giudizio e, per un altro verso, della legittimazione in proprio ad agire in giudizio a difesa dell’interesse comune, con la conseguenza che in tal modo il diritto di ciascun condomino non resta mai sistematicamente sacrificato dal voto della maggioranza, come invece risulterebbe applicando il quorum previsto dall’art. 71-quater, comma 5, disp. att., senza raggiungere la unanimità dei consensi.
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