Cari amici,
L’ ultima riforma fiscale approvata negli USA provocherà altri buchi di bilancio.
Il governo americano crede di poter agire come se i mercati privati finanziari internazionali non esistessero; restano intimamente convinti che i loro tassi di interesse staranno bassi finchè la FED terrà i tassi di cambio bassi.
Inoltre le agenzie di rating sono anch’ esse americane, ed elargiscono pagelle partendo dal presupposto assoluto che gli USA sono i più bravi.
Mi sembra di vedere degli attori che recitano da un palcoscenico, in un teatro in cui gli spettatori non applaudono più e si stanno per mettere il cappotto per uscire.
Mi chiedo perchè mai l’ Unione Europea deve sforzarsi così tanto per ristrutturare i debiti pubblici dei paesi più deboli dell’ Unione, mentre gli USA, invece, possono permettere di farsi mantenere dai soldi degli altri senza preoccupazioni?
Il motivo sembra evidente: Il mondo è abituato ai dollari! Tre quarti circa delle transazioni internazionali è prezzata in dollari.
Gli USA sono come la mamma! Non può volerti male!
Ebbene nonostante questa supremazia evidente, la notizie è che i tassi di interesse a lunga scadenza del debito sovrano USA si stanno incrementando, anche se la FED sta mantenendo i tassi bassissimi.
Ma gli USA non possono permettersi questo incremento dei tassi, perchè altrimenti il servizio del loro immane debito pubblico diventerebbe presto insostenibile.
E allora varrebbe la regola immutabile valida per tutti debitori inesigibili: Se non si hanno più i soldi per pagare, semplicemente, non si paga!
Il sole 24 ore
WASHINGTON – Improvvisamente, i leader del partito democratico e del partito repubblicano a Washington stanno facendo a pugni per concordare la necessità di importanti tagli alle tasse che interesseranno non solo gli americani della classe media, ma anche i più ricchi (sia da vivi che una volta deceduti). Questo scoppio improvviso di un consenso bipartisan a lungo ricercato indica che una nuova e più forte America è dietro l’angolo?
Purtroppo è vero il contrario. Quello che stiamo osservando è un accordo di corridoio su un approccio alla finanza pubblica particolarmente pericoloso, ovvero la continuazione ed estensione della politica di George H.W. Bush nota come economia-vodoo, le cui conseguenze stanno per toccare l’America ed il resto del mondo.
Bush si è trovato in competizione con Ronald Reagan per la nomina repubblicana nel 1980. Al tempo Reagan aveva suggerito che il taglio alle imposte avrebbe ripagato da sé, aumentando le entrate; una teoria macroeconomica che è diventata nota come supply side economics Non c’è niente di sbagliato nel preoccuparsi dell’impatto scoraggiante di tasse più elevate, ma la versione estrema presentata da Reagan non risultava comunque applicabile al tempo agli Stati Uniti. Infatti, la riduzione delle tasse comporta una riduzione anche delle entrate ed un conseguente aumento del deficit pubblico.
In realtà, nessun economista serio sta oggi rivendicando l’effetto Reagan anche perché in parte l’Ufficio Congressuale per il Bilancio ha assunto un approccio trasparente dimostrando in dettaglio che la riduzione delle tasse comporterebbe un aumento del deficit di circa 900 miliardi di dollari. Il pensiero che si nasconde tuttavia dietro questa politica e che riprende ma espande la teoria di Reagan implica che l’alto livello di disoccupazione e la crescita rallentata dell’economia richiedano necessariamente l’intervento di incentivi fiscali. Per chi, in generale, predilige tasse ridotte, si tratta ovviamente di una pura illusione.
L’esperienza della politica fiscale degli ultimi decenni è abbastanza chiara: conviene stimolare l’economia con una politica fiscale discrezionale di tanto in tanto ed in particolar modo nei casi in cui un’eventuale non attuazione di tale politica finirebbe per dare risultati disastrosi. All’inizio del 2009 ha avuto infatti senso promuovere gli incentivi fiscali.
Ma più in generale, proprio come si osserva oggi, gli stimoli fiscali hanno difficilmente un impatto a lunga durata. Ci può essere un impatto positivo temporaneo sulla domanda, oppure interessi più alti possono riuscire a compensare la spinta fiscale. Da quando le discussioni sui tagli alle tasse sono state avviate in modo serio, i tassi di riferimento per le obbligazioni a dieci anni sono cresciuti in modo significativo rispetto ad un mese fa’ passando da 3,21% a 4,16%.
Oggi il mercato è in agitazione in particolar modo rispetto alla prospettiva a lungo termine di enormi deficit fiscali. Alcuni critici escludono quest’ipotesi considerandola irrazionale, ma si tratta, ancora una volta, di una pura illusione. Il lavoro innovativo portato avanti per diversi anni da Carmen Reinhart, mia collega al Peterson Institute di Washington, lo dimostra chiaramente. Nessun paese, compresi gli Stati Uniti, riesce a sfuggire alle conseguenze deleterie di deficit fiscali grandi. E in effetti, il libro di Reinhart e Ken Rogoff, This Time is Different (Questa volta è diverso ndt), dovrebbe diventare una lettura obbligatoria per tutti i policy maker americani.
In questo contesto, nuovi incentivi fiscali potrebbero rivelarsi controproducenti in quanto le spese extra sarebbero controbilanciate dalle conseguenze negative sul mercato immobiliare con tassi d’interesse più alti. La Riserva Federale statunitense ha promesso di contenere i tassi a lungo termine, ma il suo impegno in questo senso sembra ora inefficace.
Ma non è questo il vero pericolo. A gran parte dei politici americani piace pensare e parlare solo degli Stati Uniti. Ma i tassi d’interesse a lungo termine statunitensi sono per gran parte influenzati da ciò che succede nel resto del mondo e da come gli investitori privati considerano il debito del governo statunitense rispetto al debito sovrano di altri paesi.
I problemi dell’eurozona stanno senza dubbio aiutando gli Stati Uniti a vendere più debito a prezzi ridotti, almeno per ora. Ma ci sono grandi probabilità che l’eurozona risolverà le sue difficoltà più o meno tra un anno (più probabilmente dopo una o altre due fasi di crisi) in parte grazie all’utilizzo giudizioso dell’austerità fiscale. Avrebbe senso se un gruppo di paesi guidato dalla Germania, più forte e più integrato politicamente di prima, emergesse all’interno di un’eurozona che ha una composizione diversificata, una struttura diversa e regole molto differenti. Quest’entità, presumibilmente più unita sia dal punto di vista fiscale che politico, costituirebbe una grande attrattiva per gli investitori.
Tra un anno, quale tipo di economia avranno gli Stati Uniti? Qualsiasi effetto a breve termine derivante dagli stimoli fiscali si sarà esaurito, il tasso di disoccupazione sarà ancora elevato e ci saranno sicuramente altri politici che reclameranno nuovi tagli alle tasse. Il deficit si aggirerà intorno all’8-10% del PIL anche con una ripresa parziale della crescita. Il mercato delle obbligazioni sarà ancora più agitato, il che implicherà interessi di pagamento più alti che aggraveranno ancor di più il deficit. Assisteremo, probabilmente, anche ad una riduzione del livello del rating sul debito del governo statunitense, il che implicherebbe tassi d’interesse ancor più elevati.
Alcuni si aspettavano che Paul Ryan, figura emergente all’interno del partito repubblicano e futuro Presidente dell’House Budget Committee al prossimo Congresso, presentasse un’opzione fiscalmente responsabile al prossimo dibattito sul deficit negli Stati Uniti. In un articolo per il Financial Times all’inizio di novembre, Ryan aveva affermato: L’America è disposta ad avere un dialogo adulto sulla minaccia del debito. Ma tutto sta a indicare che anche lui è avventatamente infantile sulla politica fiscale come gran parte dei suoi colleghi repubblicani sin da Ronald Reagan.
Purtroppo non c’è neppure alcun segnale ad indicare che la leadership democratica sia pronta per un dialogo maturo sul consolidamento fiscale. I leader di entrambi i partiti ci arriveranno, ma solo trascinati, e tirando calci e urla, dai mercati finanziari.
Simon Johnson, ex capo economista del FMI e co-fondatore di uno dei blog più rinomati sull’economia, , è anche professore al MIT Sloan, e ricercatore senior all’Istituto Peterson per l’Economia Internazionale.
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