L’inflazione? Non è il male peggiore
di Carlo De Benedetti
Ho letto un articolo interessante sulla WebPage del Sole 24 ore di stamattina, che tratta dell’ inflazione in termini di “vantaggi per la ripresa economica”.
L’ inflazione, in termini molto semplici, è il fenomeno che determina la perdita di valore della moneta.
In altre parole, è bene sapere che il valore della moneta non è costante, ma cambia, e, pertanto, con la stessa quantità di moneta possiamo ritenerci “più ricchi”, oppure “più poveri”.
Durante gli ultimi vent’ anni, le istituzioni finanziarie di controllo mondiali si sono adoperate con impegno per mantenere il valore della moneta costante.
Il risultato di questa politica è stato il predominio assoluto della finanza sull’ economia.
Ossia, in altre parole, si è creata nei “ricchi” l’ aspettativa di diventare sempre più “ricchi”, in quanto si sono convinti che il valore della moneta si potrà conservare nel tempo.
Questa aspettativa è evidentemente sbagliata, perchè il valore dei soldi non è mai totalmente staccato dal valore “percepito” della realtà.
La crisi economica che stiamo vivendo, a mio giudizio crea le condizioni ideali affinchè si possa verificare un’ inflazione sensibile.
Gli Stati Uniti stanno pompando sempre più moneta nel sistema, sostenendola con debiti che, propabilmente, non saranno in condizioni di rimborsare.
Gli altri paesi del mondo stanno seguendo l’ esempio degli Stati Uniti.
La caduta del valore del dollaro è la logica conseguenza di questa politica.
Noi che sponsorizziamo l’ economia relazionale, abbiamo delle ragioni per essere moderatamente ottimisti in quanto:
L’ inflazione erode il valore del capitale, e spinge all’ investimento in “cose reali”.
L’ inflazione costringe i ricchi a spendere i loro soldi “prima” che perdano di valore.
L’ inflazione diminuisce il peso dei debiti, e ridà fiducia ai debitori.
E il mondo oggi è abitato da troppi debitori!
Il sole 24 ore
«Un po’ d’inflazione controllata in questa fase sarebbe più che utile». Lo ha detto Jacques Delors qualche settimana fa presentando il suo ultimo libro Investir dans le social, dove emerge un ruolo nuovo dello stato in economia, concentrato soprattutto nel rafforzare quelle che Amartya Sen definirebbe capabilities dell’individuo, sin dall’infanzia. Mi ha colpito la sua insistenza sul tema dell’inflazione come strumento utile ad uscire dalla crisi e sulla necessità di una relazione più stretta, che anch’io da tempo sostengo, tra politiche monetarie ed economiche.
Qualche settimana fa il New York Times citava un cantante country western americano, Merle Hazard, come colui che meglio di chiunque altro ha evidenziato, in questi mesi, il dilemma che abbiamo davanti: «Inflation or deflation – canticchia Merle – tell me if you can: will we become Zimbabwe or will we be Japan?». Esiste davvero questo Merle. Lo sono andato a scovare su YouTube. Basta mettere il suo nome su Google. Un personaggio stralunato, con tanto di cappellone da cowboy, e accompagnato da un certo Bretton Wood. Va avanti per due minuti e mezzo, rivolgendosi a un certo punto anche a John Maynard Keynes: «Dimmi John, i dollari nel mio taschino compreranno di più o di meno il prossimo anno?». Straordinario. Secondo me dietro quel tipo si nasconde un economista raffinato. Perché è proprio intorno a quest’ultima domanda che oggi ci giochiamo l’uscita dalla crisi.
Per alcuni la crisi ha indubbiamente determinato una riduzione del reddito disponibile. Sono coloro che hanno subìto in famiglia licenziamenti o che hanno comunque dovuto affrontare un taglio della retribuzione. Ma per molti altri i salari hanno mantenuto una dinamica assolutamente normale. Anzi, la contrazione in taluni prezzi ha di fatto aumentato il loro potere d’acquisto. Perché allora queste persone non comprano come potrebbero? La risposta è nel gioco cruciale delle aspettative. Per l’appunto in quel dilemma: «Dimmi John, i dollari nel mio taschino compreranno di più o di meno il prossimo anno?». Ebbene, fino a quando l’aspettativa sarà che quei dollari compreranno di più, perché i prezzi caleranno, l’avvitamento della crisi nella deflazione farà peggiorare la situazione giorno dopo giorno. Più le persone rinvieranno gli acquisti, più i prezzi caleranno, più i debiti contratti – soprattutto nell’acquisto delle case – peseranno sui potenziali consumatori.
È una realtà che le autorità monetarie, preoccupate per decenni soprattutto dell’inflazione, non comprendono in tutta la reale portata. Certo, soprattutto in America, Regno Unito, Giappone e Svizzera le banche centrali hanno abbassato i tassi d’interesse a breve vicino allo zero. Ma non c’è ancora quel messaggio chiaro ed esplicito che aiuterebbe a invertire le aspettative: la deflazione – ecco il messaggio da far passare – è il nostro nemico e per combatterlo siamo pronti a quello che gli americani chiamano un reflationary shock. Ce lo insegnano le grandi crisi del passato, e le strategie attuate per il loro superamento. Ci insegnano quanto la deflazione possa essere dannosa e quanto serva uno shock inflazionistico per porre fine alle aspettative deflattive e rilanciare la crescita.
Dal ’29 al ’33 i prezzi, a causa della deflazione, calarono del 27 per cento. Poi un contributo decisivo per superare la Grande Depressione venne dalla decisione dell’amministrazione Roosevelt di aumentare tra il ’33 e il ’34 il prezzo dell’oro fino a 35 dollari per oncia. Questa mossa portò a una svalutazione della moneta americana e a un aumento dei prezzi di tutti i generi – in particolare quelli agricoli – che diede una spinta straordinaria per rendere i debiti meno onerosi e far riprendere l’economia. Qualcosa di analogo è avvenuto nel caso della depressione svedese del ’92, quando un deprezzamento della moneta mise fine a un anno di pericoloso declino. Al contrario il Giappone, negli anni 90, ha trascinato la sua spirale depressiva anche perché la Banca nipponica, pur portando i tassi a zero, si è mossa con tale prudenza e riluttanza da non invertire le aspettative.
Qualche settimana fa l’economista americano Allan Meltzer, dicendosi preoccupato per l’inflazione, notava che «nessun paese, affrontando enormi disavanzi di bilancio, la rapida crescita dell’offerta monetaria e la prospettiva di una costante svalutazione, ha mai sperimentato la deflazione. Questi fattori – concludeva – sono messaggeri d’inflazione». Il Nobel Paul Krugman gli ha risposto con un semplice grafico sulla “decade perduta” del Giappone, che appunto evidenziava la tendenza deflazionistica in quelle condizioni. Lezioni dalla storia, appunto. Una lezione che dobbiamo saper ascoltare oggi che abbiamo di nuovo davanti quel dilemma: “inflazione o deflazione?”.
L’errore compiuto allora dalle autorità monetarie giapponesi, lo ricordo bene, fu denunciato dai maggiori policy makers americani di oggi, a cominciare dal presidente della Fed Ben Bernanke e dal capo del Consiglio economico di Obama, Lawrence Summers. Eppure questi stessi uomini, oggi, non sembrano avere la necessaria determinazione nell’evitare quell’errore, trasmettendo all’economia la scossa inflazionistica che non è rinviabile. Quello shock permetterà di ridurre il peso dei debiti, che le tendenze deflazionistiche tendono invece ad accentuare con conseguenze perverse su tutto il sistema finanziario. E in secondo luogo invertirà il meccanismo delle aspettative dei consumatori, oggi paralizzati nelle loro scelte d’acquisto nella ragionevole attesa d’una ulteriore riduzione dei prezzi.
Capisco che chi, dagli anni 70, si è esercitato nella lotta all’inflazione, oggi abbia difficoltà a prendere le giuste misure a questa nuova realtà. E capisco che, quando si sono conosciuti i disastri dell’inflazione a due cifre, ci sia una grande prudenza nell’usare leve inflattive. Ma davanti allo scenario della deflazione, il rischio d’attivare un processo inflazionistico che possa sfuggire di mano è davvero un piccolo rischio che vale la pena correre.
La Fed e la Bce, perciò, e non solo loro, devono operare con determinazione per uscire dall’incertezza di chi si domanda “deflation or inflation” e assicurare con chiarezza che il prossimo anno il livello dei prezzi sarà ben più alto di quello di quest’anno. Serve una politica – anche della comunicazione – trasparente, attiva e sistematica in questa direzione. Va fissato un target per un livello d’inflazione tra il 2 e il 3% e va annunciato che non si permetterà che il tasso scenda sotto quella soglia.
Solo sapendo che i prezzi saliranno nell’ordine del 2-3% chi oggi è indebitato – soprattutto i proprietari di casa – potrà avere una ragionevole attesa che il peso di quell’onere possa in futuro diminuire (o almeno non aumentare) e nessuno avrà più interesse a rinviare i consumi, per il semplice fatto che l’aspettativa sarà di un prezzo più alto e non più basso. Questa è la priorità. I risparmiatori devono smetterla d’usare – come è stato detto – i propri soldi solo come uno sgabello per sedersi.
So bene che quest’approccio è esattamente quello che temono economisti come Meltzer. Loro credono che questo zelo anti-deflattivo renderà poi impossibile tenere sotto controllo l’inflazione. Ma, come ha osservato l’Economist, l’indicazione che ci viene dalle crisi del Novecento è che è più facile tenere sotto controllo l’inflazione che la deflazione. E comunque la prima fa meno danni della seconda. Non faremo la fine né del Giappone né dello Zimbabwe. Non la faremo perché il secolo scorso ci ha insegnato come fronteggiare la deflazione e perché quello stesso secolo ci ha insegnato come tenere sotto controllo l’inflazione. Il passato è la nostra salvezza. L’importante è saperne ascoltare la lezione.
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