Il sussidiario
Sarebbe veramente interessante sapere se i grandi finanzieri guardano e conoscono i dati complessivi dell’economia e se ogni tanto danno una semplice sbirciata ai libri di storia economica. Probabilmente anche una breve consultazione o una semplice lettura suggerirebbe scelte differenti. E la stessa cosa potrebbe essere utile anche ai politici, non solo a quelli italiani, ma a tutti quelli che oggi occupano posti rilevanti nelle scelte decisionali in Occidente. In questo momento, a metà settembre del 2012 (settimo anno consecutivo di crisi), ci si trova di fronte a due grandi interventi di due banchieri centrali. Il primo lo ha fatto Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, con la decisione di acquistare bond fino a tre anni, soprattutto di Spagna e Italia, in modo illimitato. E indubbiamente, gli effetti sullo spread si sono avuti, perché il coefficiente è sceso di cento punti in pochi giorni. Il secondo grande intervento lo ha fatto il capo della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, giovedì 13 settembre quando era già notte in Europa. Se Mario Draghi ha messo in campo un “bazooka” di limitata portata (anche per la decisione della Corte costituzionale tedesca di mettere un limite agli aiuti da parte della Germania nel Fondo Salva Stati) contro la speculazione sull’euro, Bernanke ha messo a punto un autentico arsenale. La Fed acquisterà titoli per 40 miliardi di dollari al mese da qui a fine anno, mentre proseguirà l’operazione twist (scambio di titoli a breve contro emissioni a lungo). In più, il costo del denaro negli Stati Uniti sarà eccezionalmente basso, vicino allo zero, non solo fino a metà del 2014, ma al 2015. Può darsi che sia sbagliato, schematico e approssimativo vedere, soprattutto nell’intervento di Bernanke, un “taglio” keynesiano, dopo l’abbandono di Keynes da parte di tutta la cultura economica degli ultimi decenni. Ma l’intervento della banca centrale americana, ci scusino i puristi, ci assomiglia non poco. Che cosa sta succedendo esattamente? Lo chiediamo al professor Luigi Campiglio, ordinario di Politica economica all’Università Cattolica di Milano.
Professore cosa sta succedendo nel mondo?
Per commentare l’intervento deciso dalla Federal Reserve, occorre andare al nodo del problema, che è quello di salvare gli Stati Uniti dal baratro. Ci sono due dati che stanno preoccupando seriamente. Noi siamo abituati a vedere il dato della disoccupazione, che è alto, che viene riportato mensilmente, quello che si aggira intorno all ‘8,3%. Ma ci sono due dati più inquietanti. Il primo è quello della disoccupazione di lunga durata, una disoccupazione ormai endemica, che colpisce esponenti del ceto medio e che può arrivare sino al tre per cento circa. Il secondo dato è la difficoltà a creare nuovi posti di lavoro, che siano in grado, in un tempo ragionevole, di riassorbire la disoccupazione. Nel momento che vivono gli Stati Uniti, anche per la scadenza elettorale, l’intervento di Bernanke è corretto, perché i margini di una nuova politica fiscale, come quella di allargare la base imponibile, sono ridotti. Poi c’è la campagna elettorale, sia che vinca Obama, sia che vinca Mitt Romney, al momento pare improbabile una svolta nella politica fiscale.
La pressione fiscale negli Stati Uniti non è uguale a quella dell’Italia.
Direi che è piuttosto bassa e soprattutto favorisce i grandi patrimoni. Tutto questo ha avuto una ricaduta sul ceto medio americano. I dati sono chiarissimi al proposito, perché dal 2005 quello che viene genericamente definito il “reddito mediano” americano, il reddito del ceto medio, che è ormai vastissimo, è diminuito. Quindi bisognerebbe agire con un’azione di politica fiscale per rimettere in moto l’economia, favorire la crescita e combattere la disoccupazione, ma al momento negli Stati Uniti, proprio alla vigilia di una campagna elettorale, questo mi sembra impossibile.
L’intervento pare quindi di natura squisitamente politica, si tiene conto di una situazione sociale che è difficile sostenere a medio termine.
Vorrei fare una considerazione. Il famoso “Occupy Wall Street” non può più essere considerato uno slogan. Cerco di spiegare il perché. Ci sono stati due momenti storici, nel corso di un secolo, in cui si è formato il cosiddetto “Top 1 percent”. L’1% delle famiglie americane aveva il 24% del reddito nazionale totale. Una sperequazione incredibile, che poi viene tradotta nel termine “polarizzazione”. Ora, nel corso di un secolo, questo è avvenuto in due anni. Non si stupisca. La prima volta è avvenuto nel 1928, alla vigilia del crollo del 1929, la seconda volta è avvenuto nel 2007, alla vigilia del drammatico 2008, l’inizio di questa crisi che viviamo. Diciamo pure che una sorta di “piovra finanziaria” ha risucchiato la produttività. Che cosa è accaduto dopo? Dopo quei due anni? Il picco del “Top 1 percent” è diminuito dopo il 1929 e anche dopo il 2007. Ma la sperequazione è rimasta. Negli anni Cinquanta e Sessanta, il picco era che il “Top 1 percent” possedeva il 13 o 14% del reddito totale. Ma se lei pensa a un periodo che si può definire di “giusta diseguaglianza”, poi deve ricredersi a partire dagli anni Settanta, quando la cosiddetta “polarizzazione” ricomincia a crescere in modo vertiginoso. E’ diventata una “polarizzazione” esagerata”.
Bernanke, con questo tipo di intervento cerca di correggere la grande sperequazione, spera di muovere l’economia americana, di creare l’opportunità per nuovi posti di lavoro. Come si potrebbe fare in Europa?
Bernanke è il presidente della Fed, una banca di ultima istanza. Può fare questo tentativo e speriamo che gli vada bene, dato che la politica fiscale negli Stati Uniti è al momento congelata. Certo, con le differenze tra la Fed e la Bce, tra i due interventi esiste solo un’analogia. Mario Draghi ha indubbiamente estratto un ”bazooka” contro la speculazione, ma è un “bazooka” a portata limitata. Glielo ha ricordato la Corte costituzionale di Karlsuhe. Ora ci vorrebbe una qualche politica fiscale europea, una limitata unità, non mi illudo tanto di più, sugli investimenti ad esempio, varando un piano di infrastrutture, di collegamenti.
Draghi alla fine ha fatto quello che poteva, ma sembra che abbia indirettamente detto: io tampono la crisi, il crollo della zona euro, poi tocca agli Stati fare il loro compito per quanto riguarda la crescita. E l’Italia che cosa sta facendo?
C’è stato un collasso del reddito familiare italiano rispetto al prodotto interno lordo di dieci punti in percentuale. La spesa pubblica è sempre lì, uguale, e mal distribuita. Non credo che si possa risolvere genericamente il nodo della produttività. Qui bisogna pensare a una scelta di politica industriale che guardi al valore aggiunto. Non credo, al riguardo, che si possa dire a sindacati e imprenditori: pensateci voi, mettetevi d’accordo. Così proprio non si risolve il problema.
(Gianluigi Da Rold)
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