Cari amici,
Il titolo di questo articolo l’ ho copiato da una lettera aperta di Giulio Tremonti al Corriere della Sera.
Quando leggo del nostro ministro dell’ Economia, sono sempre assalito da sentimenti contrastanti.
Questa lettera, a mio giudizio, è condivisibile e spero che divenga fonte per scelte politiche condivise.
Non è chiaro dove dovrebbe finire il mercato e iniziare il governo, e mi piacerebbe leggere delle opinioni autorevoli su questo punto.
Non vorrei che il significato da attribuire a questa idea diventi l’ obiettivo di privatizzare gli utili e socializzare le perdite.
Pertanto è opportuno che si definiscano bene gli obiettivi politici da raggiungere, per evitare pericolosi fraintendimenti.
Ad esempio, per ciò che mi riguarda sono fortemente contrario a “regalare soldi alle imprese” con fondi e/o prestiti più o meno giustificati.
I fondi dello stato dovrebbero servire a finanziare i servizi che lo stato è tenuto a fornire, e su questo lascio aperta la questione su quali servizi lo stato “deve” fornire ai cittadini.
La questione politica rimane aperta oggi più che mai, perchè in futuro ci sarà molto bisogno di aiuto pubblico per sostenere un mercato malato e in crisi.
…ne riparleremo!
Corriere della sera
Caro Direttore, crisi? Finora si è discusso di exit strategy. È forse più opportuno usare due altre parole: crisis management. Perché la crisi non è finita!
Ha piuttosto subìto —come prevedibile e previsto—una mutazione venendo a svilupparsi, come dentro a un videogioco, con l’apparizione sequenziale e concatenata di mostri via via più forti. Per capirlo basta guardare la carta «geoeconomica» dell’Europa. In Europa sono rimasti i confini politici. Ma, unificando lo spazio monetario, sono stati rimossi tutti i confini economici. È così che non ci sono più confini tra il bilancio di una banca residente in uno Stato e il bilancio della banca controparte residente in un altro Stato. È così che non ci sono più confini ma travasi tra debiti, deficit e default delle banche e degli Stati. L’esposizione della core Europe verso la Grecia è limitata. Ma l’esposizione della core Europe verso i Paesi che a stella la circondano è, contando i connessi derivati, pari ad alcuni «trilioni» (!) di euro. È il frutto avvelenato dell’«età dell’oro». Di un oro non reale ma virtuale, che negli anni passati molti hanno fabbricato e trafficato e di cui molti in tutta Europa hanno a vario titolo goduto, facendolo circolare a mezzo di cambiali mefistofeliche. Oggi, venute a scadenza quelle cambiali, non si può escludere che la crisi della periferia, drogata dall’eccesso di finanza iniettata dal centro, resti circoscritta alla periferia e non ritorni invece come un boomerang verso il centro evidenziando, in una catena di shock, perdite sistemiche negli «attivi» iscritti nei bilanci delle banche controparte. Le colpe passate e i doveri attuali non sono certo uguali, da banca a banca e da Stato a Stato. In particolare, i doveri degli Stati in crisi sono e devono restare assoluti, ma ormai la responsabilità è di tutti. Rimossi ex ante i confini economici, non si possono più far valere ex post i confini politici. L’estensione della crisi è sistemica e la soluzione può essere solo politica. La sovrastruttura politica deve allinearsi alla struttura economica. E la semplice somma algebrica—totale o parziale —dei Governi nazionali più o meno forti non può fare da sola quel nuovo tipo di politica che il tempo presente richiede. Il tempo è strategico. Dobbiamo guadagnare tempo, guardando non al prossimo mese ma al prossimo decennio, per assorbire la crisi e per organizzare il futuro. Il nostro futuro non è infatti un destino ma una scelta. Nel campo della finanza l’idea prima è quella di emettere «eurobond». Un’idea che è essenzialmente politica e non economica, come già nel 1790 scriveva Hamilton per gli Stati Uniti. L’idea alternativa è quella di coordinare con trasparenza le emissioni di titoli pubblici denominati in euro, lasciando invariati i costi nazionali, ma riducendo nell’interesse di tutti l’esposizione al rischio prodotto dalla speculazione finanziaria che noi stessi stiamo alimentando. Ancora, se le istituzioni europee sono forti, e proprio perché sono forti, si può estendere la gamma e l’efficacia degli interventi realizzabili. Nell’ottobre del 2008 fu ipotizzata (ed appoggiata dall’Italia), ma poi scartata, l’idea di un «Fondo europeo di salvataggio bancario». Nel finanziarlo alcuni Stati ci avrebbero perso (ad esempio, l’Italia), ma l’Europa ci avrebbe guadagnato. Non è il caso di tornare a pensare a qualcosa di simile? Si può anche prevedere l’intervento del Fondo monetario internazionale. Ma questo non come istituzione esterna, che arriva in un deserto politico. Piuttosto, se l’Europa è forte, solo come banca, con i suoi capitali (che sono poi in buona parte anche nostri) e con il suo know-how. Nel campo dell’economia va ripensato il modello di sviluppo. Oggi il modello economico europeo è basato soprattutto sul mercato. Ma non era così all’inizio. All’inizio l’Europa è stata infatti saggiamente basata su tre Trattati-pilastro. Il Trattato di Roma, sul mercato. Il trattato Ceca, su carbone ed acciaio. Il trattato Euratom, sull’energia atomica. Nell’insieme l’illuminata filosofia politica degli anni ’50 si sintetizzava nella formula: il mercato dove possibile, ma il governo dove necessario. Il primo Trattato ha funzionato magnificamente. Il secondo Trattato ha esaurito la sua funzione. Il terzo Trattato non ha mai preso forma. A partire dagli anni ’50, all’interno dell’economia di mercato, l’automobile è stata il grande driver della nostra crescita. Ora serve qualcosa di nuovo, diverso e sostitutivo. Per spingere sullo sviluppo non bastano più solo i consumi privati. Per lo sviluppo bisogna aggiungere domanda pubblica addizionale, domanda fatta da investimenti pubblici in energia, ambiente ed infrastrutture. È inutile illudersi che per questo sia sufficiente l’aggiornamento dell’Agenda di Lisbona, sempre più simile al body-building di un ectoplasma. Gli investimenti in energia, ambiente ed infrastrutture non possono essere operati dal solo mercato. Per farli non è sempre necessario usare i bilanci pubblici. Si può anche operare con capitali privati. Ma è fondamentale una «regia» pubblica europea. La crisi ha del resto dimostrato che il nostro modello economico non può neppure essere trainato solo dall’export ma appunto riequilibrato anche dalla domanda pubblica interna. Il fondo «Marguerite», la rete delle Casse depositi e prestiti europee, è stato un primo passo. Ma si deve andare oltre. Il deficit più grave che abbiamo oggi in Europa è il deficit di ideali e di volontà. In «Alla ricerca del tempo perduto» si trova scritto che: «Il solo vero viaggio… è avere altri occhi». Non dobbiamo perdere altro tempo.
Giulio Tremonti
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