Cari amici,
Anche Paolo Rossi è convinto che tra destra e sinistra, ormai, non c’ è più tanta differenza.
L’ unico partito che in Italia racconta una storia “originale” oggi è la Lega (purtroppo!).
La cosiddetta “sinistra” ha bisogno di imparare un nuovo linguaggio che possa essere di attualità.
Per trovare nuove parole oggi ci vuole molto coraggio, e, come si sa, per chi ha tanto da perdere rischiare è difficile.
Ma oggi il PD ha sempre meno da perdere, perchè, elezione dopo elezione, sta capendo che se non cambia muore.
La società chiede nuovi sogni per poter evolvere in modo cosiddetto “democratico”.
Oggi abbiamo bisogno di verità, prima che di giustizia.
Ma i politici, sanno ancora raccontare la verità?
Corriere della sera
Un «cittadino esemplare» riceve una visita inaspettata: è lo Stato a bussare alla porta. «Lo so, ce l’hai con me. Mi hai cercato tanto. Mi hai sempre rispettato. E io cosa ho fatto? Ti ho abbandonato, ti ho lasciato tutte le bollette da pagare, a chi poi? A me…». Irriverente ma non offensivo, il monologo che Paolo Rossi avrebbe dovuto portare al festival di Sanremo. Eppure gli italiani non l’hanno visto. «Mi hanno cercato loro, gli autori—racconta Rossi —. Sono stato a trovarli a Roma, poi a Sanremo. Ho raccontato il testo. Bellissimo, divertentissimo, dicevano. Poi non hanno più telefonato. Qualcuno però deve aver telefonato a loro». Si è detto che nella prima versione il visitatore non fosse lo Stato ma Berlusconi… «No. Non sono così pazzo, sarebbe stata una provocazione. Ho riferito l’episodio al mio maestro, Dario Fo, che deve averlo rielaborato. Ma non è così».
Dice Rossi che «ci sono molte forme di censura. C’è quella dei cortigiani, come in questo caso. Burocrati che si svegliano un paio d’ore prima delle persone di talento, per avere il tempo di sforbiciarne il lavoro. Poi c’è la censura del re. Ma c’è anche la censura di chi il proprio talento lo sacrifica, si vende al mercato, purga le proprie opere. Succede a molti del mio ambiente. Li vedo censurare la loro stessa intelligenza e originalità. Ma non voglio fare nomi. L’unico collega di cui parlo è il presidente del Consiglio: un uomo di spettacolo, il più adatto a governare la società dello spettacolo».
«In questi trent’anni in Italia è accaduta una rivoluzione culturale, che ha trasformato i cittadini in spettatori. Tutti sono stati coinvolti, anche la sinistra. Gli unici che non si sono adeguati, che hanno continuato a lavorare per strada, magari avendo in tasca ancora la tessera del vecchio Pci, sono i leghisti. La Lega è l’unica forma di resistenza al virtuale. Purtroppo, a differenza di Alberto da Giussano, è salita sul carro dell’imperatore. Per il resto, non credo ci sia molta differenza tra le feste azzurre del Pdl e la festa dell’Unità o come si chiama adesso. Festa democratica, mi dicono. Da tempo, dalla canzone di Gaber in poi, i parametri di destra e sinistra non sono più validi. E a volte, quando incontro un esponente di sinistra, mi viene da sentirmi un po’ di destra ». Ma se alle regionali lei si è candidato con Rifondazione? «L’ho fatto per un amico, Vittorio Agnoletto. Non sono comunista; al più, anarchico. E la mattina delle elezioni sono rimasto a casa. Credo di essere l’unico candidato che non si è votato».
In tanti guardano a un altro suo collega, Beppe Grillo. «Ognuno nella vita va dove lo portano le sue scelte. Io non riuscirei mai a diventare un capopopolo — dice Rossi —. Preferisco restare un saltimbanco. Questo so fare, e lo so fare bene. Grillo ha altre capacità. Da buon genovese, è molto portato ad afferrare i concetti economici». E Di Pietro? «L’ho visto due volte in vita mia. A un convegno sulla Costituzione, dove si arrabbiò molto perché gli avevano portato via il posto in prima fila. E in tv da Fazio. Dietro le quinte mi chiese se i capelli erano i miei. Per un attimo ho pensato che non fossero i miei, che Di Pietro avesse un dossier riservato sui miei capelli e sapesse di loro cose che io non so. Mi ha ricordato il poliziotto cubano che mi interrogò per ore: aveva trovato la polvere che usavo per incollare un ponte dentale. Non mi mollò finché non mi staccai il ponte, lo cosparsi di polvere e lo riattaccai. Disgustato, il Di Pietro cubano mi rilasciò ».
Tra i bersagli di Paolo Rossi ci fu Bettino Craxi. «Dov’è finita la fontana di piazza Castello? Ad Hammamet!» cantava. Qual è oggi il suo giudizio su Craxi? «Non riesco a giudicare una persona che non può rispondere. Io attacco il potere; quando l’uomo perde il potere, smetto di prendermela con lui. Craxi paga il pedaggio che tocca agli sconfitti. Quando in Parlamento si alzò a dire che tutti erano responsabili, diceva la verità. Anche se ormai è diventato un luogo comune, dalla politica a Calciopoli: tutti sono corrotti, così fan tutti…».
Si chiamava Pianeta Craxon lo spettacolo che Rossi faceva al Derby nel 1980. «Uno dei personaggi era Berlusconi. Mi chiedevano: “Perché te la prendi con un imprenditore edile?”. In realtà lui aveva già cominciato a comprarsi l’Italia. Per prima cosa cambiò la comicità. La tv impose il passaggio dalla narrazione al tormentone, dalla tradizione latina alla battuta anglosassone, frantumabile dagli spot. Poi ha cambiato tutto il resto. Denunciare la malefatte di Berlusconi è inutile: vince perché in tanti si identificano nel primattore, che è anche un po’ primattrice; in tanti vorrebbero vivere nel suo film. Non lo dico per snobismo: sono uno che considera i propri film migliori quelli girati con i Vanzina. Ma la tv ha sostituito valori autentici con altri falsi, ha innalzato vitelli d’oro, anzi maiali d’oro. Per fortuna, ora la tv è morta. Tra un po’ sarà modernariato, come i registratori Geloso ». Sicuro? «Sì. Prima il cinema uccise il teatro. Poi la tv uccise il cinema. Ora la rete uccide la tv, e con il passaparola rilancia il teatro. Il celebrato Raiperunanotte di Santoro alla fine era uno spettacolo dal vivo, in un Palasport». Non guarda proprio nulla in tv? «Ogni tanto, Amici o X-Factor. Selezionano ragazzi preparati, a cui però manca il “duende”, quell’estro che non si insegna ma si può uccidere». Morgan? «Di questa storia colgo solo l’aspetto umano. Nella mia vita artistica ho visto, indirettamente e no, parecchi inferni. Quando lo spettacolo è finito e dalle uscite laterali sbuchiamo nel silenzio e nel buio, capita di cadere in certi guai».
Ora Paolo Rossi porta in giro per l’Italia il Mistero Buffo. «Vado nella casa della carità di don Colmegna a Milano, nelle scuole del Reggiano, e nel carcere di Bollate. Ha organizzato Vallanzasca. Il pienone è sicuro: i detenuti non hanno altra scelta». Il suo fondo anarchico viene fuori quando difende i dissidenti dell’amata Cuba: «Proprio chi si è entusiasmato per la rivoluzione cubana non deve vergognarsi ora di criticare il regime cubano». E quando racconta storie di famiglia. «Due anni fa, con il mio primogenito Davide, ho accompagnato mio padre, che ha combattuto in Jugoslavia, a cercare i corpi dei suoi commilitoni gettati dai titini nelle foibe. Non li trovammo: quella è zona termale, sul posto magari avevano costruito un percorso benessere. Noi siamo di Monfalcone. Bisiacchi, che secondo Magris può significare sia “gente tra due acque”, l’Isonzo e il Timavo, sia “gente in fuga”. Come i carpentieri del mio paese, bastonati per vent’anni dai fascisti e, passata la frontiera dopo la guerra, dai comunisti».
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