La più grande comunità virtuale del mondo continua a crescere
Ma molti, a partire da Bill Gates, iniziano a pentirsi. Ecco perché
Cari amici,
Da un mesetto mi sono iscritto a FaceBook, ed ho iniziato a studiare il suo funzionamento dal punto di vista sociale ed economico.
Come sapete mi interesso per lavoro alle Comunità Residenziali, e credo che sia possibile creare delle comunità virtuali che possano aiutarci a migliorare i nostri ambienti sociali.
Da ciò deriva che un fenomeno virtuale come facebook mi interessa.
Vi dico subito che non sono arrivato ancora a nessun convincimento.
Mi limito a riportare di seguito due articoli che trattano del fenomeno facebook dal punto di vista sociale ed economico.
E’ interessante notare come all’ interno di questa società virtuale ognuno abbia la possibilità di creare la propria cerchia di amici, al fine di condividere pensieri ed informazioni.
E’ opportuno riflettere come queste informazioni possano essere ricordate a lungo, ed utilizzate per motivi “interessati” da personaggi non sempre animati da buone intenzioni.
Già oggi si verifica che chi deve prendere la decisione di assumere la gente, prima faccia una ricerca su FaceBook per sapere di più sui candidati all’ assunzione.
Per ciò che mi riguarda, finora facebook mi ha offerto dei vantaggi, in quanto mi ha dato la possibilità di creare nuove reti di contatti che utilizzo per condividere i miei progetti e le mie idee.
La mia privacy la difendo attraverso la consapevolezza, evitando di pubblicare informazioni private e non attinenti con ciò che voglio far sapere.
I miei amici so chi sono e li contatto per mezzo di vie più tradizionali per fargli sapere che gli voglio bene.
Su facebook cerco di farli pensare!
Psicocafè di Giulietta Capacchione
Sul New York Times è stato pubblicato un fantastico articolo che descrive i meccanismi psicologici e sociologici alla base della Facebook mania e della diffusione di applicazioni come Twitter e di altre forme di microblogging come i tumblr.
E’ lunghissimo, ma ho provato a sintetizzarlo per me e per voi, perchè dà conto e ragione di un fenomeno esplosivo che sta cambiando la vita di tanti.
Che cosa spinge milioni di persone a condividere incessantemente minuto per minuto la propria vita e altrettanti milioni di persone a interessarsi incessantemente minuto per minuto della vita altrui?
Gli scienziati sociali la chiamano “consapevolezza ambientale” e , a quanto pare, è per molti irresistibile.
E’ una specie di consapevolezza estrema del ritmo della vita di qualcuno altro, un ritmo mai conosciuto prima.
Si può sapere quando un contatto sente le prime avvisaglie di un raffreddore e poi scopre di avere la febbre e poi, dopo qualche ora, si sente meglio.
Oppure si può sapere chi sta avendo una pessima giornata al lavoro, quali siti sta visitando (con il tumblr) dove si trova fisicamente o cosa sta pensando o se si sta facendo un panino.
Il paradosso della consapevolezza ambientale è che ogni piccolo aggiornamento, ogni singolo bit di informazione sociale è insignificante di per sé, anche estremamente superficiale talvolta.
Ma prese tutte insieme, nel tempo, queste microinformazioni diventano un ritratto sorprendentemente sofisticato della vita altrui, fornendo la possibilità di un’esperienza psicologica interpersonale del tutto inedita.
Nel mondo reale nessuno telefonerebbe a qualcuno per dettagliargli il fatto che sta mangiando un panino o che sta visitando un certo sito internet o che si trova in biblioteca.
L’informazione così minuta e in tempo reale si trasforma in una sorta di lettura della mente a distanza. E’ come se ogni contatto avesse una sorta di display collocato sulla fronte.
Ma c’è di più. Se leggo su twitter che un contatto del mio gruppo sta andando al bar o sta pianificando di andare a un concerto, posso decidere di imitarlo e/o di raggiungerlo.
E se lo incontro faccia a faccia è come se non fosse mai stato veramente lontano da me. Non c’è bisogno di chiedergli “cosa hai fatto oggi?” perché lo sai già.
Al contrario puoi cominciare a discutere di ciò che l’altro ha twitterato quel pomeriggio come se ci sia stata una conversazione nel mezzo.
Si finisce per realizzare un legame sociale spesso più intimo di quello che si ha con certi familiari o amici con cui ci si sente qualche volta al mese.
Di essi non si conoscono dettagli come una recente emicrania di tre giorni, e non si riesce a esordire con nonchalance con un “come ti senti oggi?”
Ma c’è un limite al numero di persone con cui si può instaurare una forma di “amicizia” del genere?
Ci sono facebooker con centinaia di amici! Nel 1998, l’antropologo Robin Dunbar stimò che il massimo numero di connessioni sociali che un essere umano può avere è di 150 persone, e diversi studi psicologici hanno confermato che i gruppi umani che si costituiscono spontaneamente si aggirano intorno alle 150 unità, fenomeno che è chiamato appunto Numero di Dunbar.
La domanda è allora: le persone che usano twitter o facebook possono elevare il loro dunbar number? In realtà le persone sembrano mantenere pressocchè inalterata nel numero la loro cerchia di amici intimi, benchè il contatto incessante renda i legami incommensurabilmente più ricchi.
Ciò che si accresce a dismisura è il numero dei conoscenti, persone che si sono incontrate a un congresso, vecchi amici del liceo o persone incontrate a una festa. Prima dell’avvento di queste applicazioni di social network questi legami deboli e transitori si spezzavano facilmente e uscivano rapidamente dall’attenzione e dalla vita delle persone.
Stabilito un contatto su Facebook invece, questi fortuiti incontri del destino cominciano a esistere, per di più in una forma inedita ed estremamente saliente e finiscono per non essere più perduti. E questo, si capisce, è bello e utile. Aumenta la nostra capacità di risolvere i problemi per esempio. Si metta il caso di star cercando un nuovo lavoro. Nella cerchia di amici può non esserci nessuno in grado di aiutarci, ma un conoscente con cui è vivo un legame tecnologico su facebook può aiutarci eccome.
Proprio l’altro ieri io stessa ho aiutato su Facebook un giornalista italiano, di stanza a San Francisco, a trovare un riferimento per un articolo scientifico che sta scrivendo. L’ho aiutato io che non lo conosco e mi trovo dall’altra parte del mondo e non l’hanno aiutato i suoi amici o i suoi colleghi. C’è gente che non fa più una mossa, un acquisto, una scelta, senza aver consultato il proprio network, che è una fonte inesauribile di esperienze e consigli.
Un altro aspetto importante da un punto di vista psicologico, e che spiega come possa essere possibile seguire anche centinaia di persone al giorno, è il fatto che l’update di un facebook o di un twitter non è come una mail, che è rivolta specificamente a noi e richiede il 100% della nostra attenzione, che dobbiamo aprire e valutare, e a cui, nella maggior parte dei casi, dobbiamo rispondere.
Gli update di Facebook sono tutti visibili in una singola pagina e non sono realmente diretti a noi. Questo li rende simili ai titoli dei giornali.
Puoi leggerli oppure no.
La repubblica
ANCHE Bill Gates se n’è andato.
Da quest’estate ha chiuso con Facebook. Ogni giorno, in media, ottomila sconosciuti volevano diventare suoi “amici”. Un po’ tantini. Come se in un bar qualcuno volesse stringervi la mano ogni dieci secondi. Se qui siamo online, il fastidio non è meno reale.
Ma la notizia ne contiene un’altra: cosa ci faceva, per mezz’ora al giorno (lui ossessionato dalle perdite di tempo, famoso per le corse all’aeroporto per imbarcarsi all’ultimo secondo) il fondatore di Microsoft nel sito di social networking più famoso del mondo?
Voleva capirlo.
Comprendere il perché di un successo planetario che a giugno ha fatto registrare il sorpasso sul principale concorrente, MySpace: 132 milioni di visitatori contro 115,7. Poi, oltre a una pletora di scocciatori, ha anche scoperto una quantità di bizzarri fan club che gli erano stati dedicati.
Uno si chiamava “Faresti sesso con Bill Gates per metà dei suoi soldi?”. Non l’ha fatto ridere e si è ritirato a vita digitalmente privata.
Diventando il più famoso di un esercito di transfughi. In crescita. I delusi di Facebook. Al picco della popolarità gli abbandoni fanno più rumore.
Tra dicembre 2007 e gennaio 2008 ventimila frequentatori francesi e 23 mila spagnoli, riporta Le Figaro, hanno cancellato il loro account. “Suicidarsi”, è il gergo drammatizzante che si usa in questi casi.
Evidentemente si erano stancati del loro “potere di condividere, per rendere il mondo più aperto e connesso”, come il ventiquattrenne fondatore Mark Zuckerberg ha definito la sua creatura alla recente convention di San Francisco. Perché nel frattempo, scartato il giocattolo, si sono accorti di alcuni difetti. Cerano tutte le attività classiche. Una volta digitata la password, si poteva vedere dov’era e che faceva in quel momento una serie di vostri amici. Scoprire che alcuni avevano familiarizzato per merito vostro.
Che un altro paio aveva cambiato la foto con cui presentarsi nella società telematica.
E ancora, declinare un numero sempre troppo alto di inviti alla comunità di amanti del gatto o a quella dei lettori del Piccolo principe, come ricaduta transitiva del fatto che qualche vostra lontana conoscenza vi si era iscritta.
Ma una volta entrati in questo circolo era difficilissimo uscire.
Ancora pochi mesi fa Facebook era una trappola.
Se decidevate che eravate stanchi di far sapere alla vostra cerchia di sodali virtuali dove vi trovavate, cosa stavate leggendo, quali acquisti avevate fatto potevate “disattivare” il vostro account.
Lo mettevate in stand by, non lo spegnevate davvero però.
Le vostre informazioni personali rimanevano sul server “per un ragionevole periodo di tempo”, come recitava la clausola del sito.
Alan Burlison, un ingegnere informatico britannico, piuttosto bravino con la tecnologia, ha provato di tutto per cancellarsi.
Niente.
E dopo lettere di fuoco al servizio clienti è riuscito a far rimuovere le innumerervoli tracce del suo passaggio solo spedendo ad alcuni responsabili del sito un link al video dell’intervista rilasciata a Channel 4 per denunciare l’accaduto.
Come lui tanti altri hanno vissuto lo stesso calvario.
E, con un cortocircuito tipico delle cose internettiane, era anche nato un gruppo di discussione interno a Facebook su “come distruggere permanentemente il tuo account” messo su da un ventiseienne svedese che a febbraio contava 4.300 membri.
Un attaccamento così tenace al cliente, ai suoi dati personali piuttosto, si spiega col fatto che il sito guadagna vendendo informazioni demografiche e di comportamento online alle aziende di marketing.
Anonime, aggregate, ma comunque preziose.
Più schedature quindi (anche di utenti non attivi) uguale più soldi.
Ma quando il risentimento ha toccato il livello di guardia la compagnia ha, molto discretamente, concesso l’exit strategy.
La prima scelta è sempre “disattivarsi”.
Ma oggi, spulciando nella sezione “aiuto”, spunta anche un bottone per fare hara-kiri virtuale.
E sparire una volta per tutte. Se la vita è stata resa più facile a chi vuole andarsene, i rischi per chi resta rimangono.
E la casistica di vittime di Facebook si allunga, facendosi sempre più variegata. C’è la compagnia di assicurazioni statunitense che, per negare un risarcimento di spese mediche al cliente, porterà in tribunale delle confessioni online che dimostrerebbero la causa emotiva e non organica dei suoi disordini alimentari.
C’è il procuratore texano che, per provare la colpa di un guidatore che ha ucciso un uomo in un incidente d’auto, allegherà le pagine in cui dichiara “non sono un alcolista: sono un iper-alcolista”. E non è necessario dire o fare cose di rilevanza penale per passare dei guai.
Come sanno bene i 27 dipendenti dell’Automobile Club della Southern California licenziati per messaggi offensivi nei confronti di colleghi. Regolarmente scambiati – e letti – attraverso il sito. Stando a un sondaggio recente di Viadeo, un altro social network, il 62% dei datori di lavoro britannici darebbero ormai un’occhiata alle pagine di Facebook e simili prima dei colloqui. E un quarto dei candidati sarebbe stato respinto di conseguenza.
Per Michael Fertik, presidente di ReputationDefender, la quota di bocciati per incontinenze internettiane negli Stati Uniti è addirittura del 43%. La sua società, a pagamento beninteso, setaccia la rete alla ricerca di potenziali fonti di imbarazzo.
“È inquietante quante informazioni siano disponibili sul vostro conto in un social network – ha detto a Wired – e quante conclusioni, più o meno vicine alla realtà, vi si possano trarre”. La totalità dei suoi dipendenti, confessa per niente contento, è su Facebook. E le figuracce di quando uno scopre che l’altro, la sera prima, è stato a un barbecue di un collega che invece si era guardato bene dall’invitarlo sono all’ordine del giorno.
Ci sono gaffe ben peggiori, ovvio. Al punto che l’anno scorso l’esercito inglese ha mandato una direttiva ai suoi soldati al fronte proibendo loro di rivelare informazioni che potessero localizzarli temendo che Al Qaeda potesse intercettarle. Niente di più facile, in effetti. Potremmo farlo tutti, senza avere né un particolare talento di hacker né di 007. Basta avere un “conto” per entrare e dare un’occhiata. Spionaggio elettronico al quale anche i genitori si sono rapidamente riconvertiti. Una volta rovistavano nei diari dei figli per scoprire ciò che loro gli volevano nascondere. Oggi possono sapere molto di più, rischiando molto meno di essere beccati in flagranza. Ti iscrivi, cerchi il nome del pargolo e scopri cosa dicono, pensano e fanno lui e la banda dei suoi amici. Un’autobiografia collettiva a portata di clic.
Perché quel che sorprende è ciò che gli esperti chiamano il “paradosso della privacy”. Succede che, come ha spiegato l’economista della Carnegie Mellon George Loewenstein, quando lui e i suoi ricercatori hanno posto domande delicate a un gruppo di studenti dando forti garanzie di riservatezza ha risposto il 25%. Quando neppure si nominava la riservatezza, si confidava oltre la metà degli intervistati. Non evocare rischi li aveva resi più tranquilli, meglio disposti. Il contesto poi fa la differenza e pochi, di fronte al pc, sentono minacciata la loro privacy. Sbagliando, ovviamente. Ma è un dato di fatto che solo un quarto degli utenti di Facebook utilizzi i controlli per graduare quante informazioni sul proprio conto gli altri possano consultare. Non si pongono il problema, oppure non sanno come utilizzarli. E restano nudi nel cyberspazio. Una circostanza che non impedisce a Facebook di crescere impetuosamente. “Mario Rossi added you as a friend…” è una delle intestazioni più frequenti nel nuovo spam che intasa le nostre caselle elettroniche. Non sappiamo bene perché, ma quando qualcuno ci invita accettiamo di far parte del club. D’altronde uno dei boss della compagnia, il futurologo neocon Peter Thiel, è un grande fan del filosofo di Stanford René Girard, teorico del “desiderio mimetico”.
Banalizzando: la gente segue quel che fa il gregge, senza tanto riflettere. Il motore immobile di tanti successi commerciali.
Nel mondo reale come in quello virtuale.
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