Eluana tra la vita e la morte
Polemiche sul diritto di vivere e di morire
Cari amici,
Di seguito riporto gli articoli che oggi appaiono sulle WebPage del Corriere della Sera e di Avvenire.
Gli articoli riassumono i punti di vista del padre, che intende interrompere i trattamenti terapeutici così come a suo giudizio avrebbe voluto la figlia, e del Vaticano, il quale difende la vita dal concepimento alla morte naturale.
Il concetto dibattuto riguarda il significato di “morte naturale”.
Il punto della questione, in particolare, riguarda le possibilità offerte dalla scienza medica di prolungare indefinitamente la vita dell’ uomo, offrendo rimedi temporanei ed anche prolungati alla morte imminente.
Una volta queste possibilità non c’ erano, e il termine della vita era molto più definito di oggi.
Io non ho le convinzioni sufficienti per schierarmi con il padre o con il vaticano.
Mi limito a porre la questione senza giudicare, rispettando il dolore dei genitori che certo avrebbero preferito non trovarsi in questa dolorosa questione.
T.
Corriere della Sera
LECCO – Lui la chiama una scelta di “libertà”; il Vaticano la definisce “eutanasia”. Ventiquattro ore dopo le polemiche sollevate dalla sentenza della Corte d’appello di Milano che concede al padre di Eluana la possibilità di interrompere l’alimentazione a sua figlia in coma da 16 anni, Beppino Englaro replica alle accuse della Chiesa: “Quello che dice il Vaticano vale per il Vaticano. Quello che diceva mia figlia vale per mia figlia”. Intervenuto a Viva Voce su Radio 24, Beppino Englaro si è detto rispettoso verso quello che sostiene il Vaticano, “ma per noi vale quello che ci diceva nostra figlia”. Commentando poi le parole scritte nel catechismo della Chiesa cattolica dall’allora cardinal Ratzinger, il papà di Eluana ha detto: “L’interruzione di procedure mediche dolorose, pericolose, straordinarie, o sproporzionate rispetto ai risultati ottenuti può essere legittima. Secondo voi questo non corrisponde alla situazione di Eluana? La verità – ha aggiunto – è che loro alle volte dicono tutto e il contrario di tutto. Si spingono in avanti, poi tornano indietro e non ho mai capito questo alternarsi”.
C’è voluto molto tempo, molte udienze, tanta sofferenza e un fiume di polemiche per ottenere il permesso di staccare la spina. Ma anche se la sentenza è immediatamente applicabile, il padre di Eluana vuole rispettare le regole e attenderà ancora due mesi prima di staccare la spina. La Procura generale ha sessanta giorni di tempo per presentare ricorso contro la sentenza della Corte d’appello di Milano. “Se ho paura di staccare la spina? Nessuna – ha detto il padre – non mi sfiora neppure”. Sono dieci anni che Beppino Englaro lotta per ottenere l’autorizzazione ad una dolce morte per sua figlia.
Quando sarà il momento, il padre di Eluana e l’avvocato Franca Alessio, nominata curatrice di Eluana su indicazione della Cassazione, dovranno decidere dove far morire la ragazza. Attualmente Eluana è ospite nella casa di cura Beato Luigi Talamone di Lecco, una struttura gestita dalla suore, la stessa clinica dove Eluana nacque 37 anni fa.
“Le suore l’hanno sempre assistita con grande amore – ha detto il padre – ma sono contrarie a staccare la spina e noi dobbbiamo rispettare le loro idee”. L’ipotesi che Eluana potesse essere trasferita all’ospedale di Lecco, è stata esclusa dal primario di rianimazione Riccardo Massei: “La morte di Eluana non avverrà all’ospedale Manzoni di Lecco. L’ospedale di Lecco, come gli altri ospedali, è per la cura del paziente acuto. Questa è una situazione diversa per cui il papà, se vuole da solo, oppure con me o ad altri medici, deciderà il posto. Non l’ospedale di Lecco, come non un altro ospedale”.
“Sarà una struttura privata convenzionata”, ha detto l’avvocato Franca Alessio, curatrice di Eluana. “Accanto ci sarà molto probabilmente il professor Massei che seguì Eluana nel 1992 dopo l’incidente stradale. I giudici non hanno ordinato che durante la sospensione dell’alimentazione, Eluana sia assistita anche da un medico legale. La scelta fatta dal padre di Eluana di attendere ancora sessanta giorni prima di applicare la sentenza, io non la condivido. Non credo proprio che il procuratore generale avanzi ricorso: è davvero improbabile, ma mi adeguo comunque alla scelta del padre di Eluana e attenderò anch’io che la sentenza passi in giudicato”.
Avvenire
La drammaticità della vita umana appare in tutta la sua incalzante urgenza e nel suo insopprimibile interrogativo quando la malattia e la sofferenza ci colpiscono. Ancor più se esse durano nel tempo e non si aprono punti di fuga, almeno a vista d’uomo.
Della malattia e della sofferenza si dovrebbe parlare in prima persona (alcuni lo hanno fatto, altri non ne hanno avuto modo), perché solo l’esperienza rende più evidente la realtà e lucido il giudizio della ragione. Se la sua situazione fosse rimasta nel dovuto riserbo – protetta come si doveva da ingerenze giornalistiche, giuridiche e politiche – di Eluana non avremmo voluto scrivere, tanto distante è l’esperienza che ci separa da lei e dai suoi familiari. Ma così non è stato. Il suo è diventato un caso pubblico, caricato di valenze e allusioni emotive, simboliche, giurisprudenziali e amministrative, e, dunque, non può restare senza una valutazione clinica, deontologica ed etica, senza una riflessione culturale e sociale. In punta di piedi, bisbigliando – come quando si entra nella stanza di chi sta male – dobbiamo quindi parlare, col massimo rispetto, o meglio, con grande amore verso di lei.
Anzitutto la realtà clinica: Eluana non è morta (né dal punto di vista cardiocircolatorio e polmonare, né sotto il profilo cerebrale) e neppure sta per morire (non è un ‘malato’ con prognosi terminale). La condizione di «stato vegetativo persistente» in cui versa da anni non è clinicamente identificabile con uno stato di «coma irreversibile» dal quale si differenzia, tra l’altro, per la possibilità (non escludibile) di un risveglio, spontaneo o stimolato, e la presenza di una importante attività elettrica cerebrale e di movimenti di apertura degli occhi, stimolati e non. Anche il ‘senso comune’ (per non dire dello sguardo clinico) apprezzano queste differenze obiettive.
Inoltre, la paziente non subisce nessun tipo di trattamento che possa ricadere nella fattispecie dell’«accanimento terapeutico»: al contrario, essa viene curata amorevolmente dal personale medico e infermieristico che la assiste e le assicura l’idratazione, l’alimentazione, il ricambio, la mobilizzazione ed altre cure nella forma che corrisponde ai suoi bisogni fisiologici essenziali. Perché privarla di tutto questo per porre fine ai suoi giorni? Come il medico e l’infermiere potrebbero abdicare – seppure in ottemperanza ad una sentenza – alla propria scienza e coscienza, la cui evidenze mostrano ragionevolmente che attuare quanto previsto dalla Corte significa condannare a morte certa questa giovane donna?
Da oltre due millenni e mezzo, la medicina è nata e si è sviluppata in Occidente per curare ogni paziente in qualunque circostanza fisica o morale si trovi; solo in epoca recente, e oggi sempre più e meglio, anche per restituirgli la salute e salvargli la vita. I medici non sono chiamati né a provocare né ad accelerare il processo della morte. Chi può arrogarsi il diritto di infrangere la dignità e la deontologia che hanno fatto di questa professione un valore imprescindibile per la nostra società e un sicuro strumento di miglioramento della vita personale dei cittadini? I giudici hanno considerato l’idratazione e l’alimentazione fornite a Eluana come ‘atti medici’, al pari di terapie che possono essere intraprese o sospese in ogni momento, sulla base della considerazione della loro efficacia o futilità clinica. Occorre invece sciogliere l’equivoco: anche se posti in essere da personale qualificato come sanitario, la natura di sostegno vitale essenziale per l’esistenza del soggetto non muta. Come ha ricordato lo scorso anno la Congregazione per la Dottrina della Fede, «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». E nel caso di Eluana, esse continuano a risultare di provata utilità nel sostenere la fisiologia del suo organismo e consentire la vita della persona.
In questa delicata materia il foro giudiziale non appare essere la sede più appropriata per decisioni che, nella lunga storia della cura dell’uomo, hanno trovato nell’alleanza terapeutica tra paziente, congiunti e medico un luogo appropriato e ragionevole di composizione dei diritti e dei doveri, tra i quali figura – secondo il detto evangelico – quello di «dare da mangiare agli affamati e da bere agli assetati».
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