Criterio previsto dalla legge o dalla convenzione?
In materia di condominio é valida la disposizione del regolamento condominiale, di natura contrattuale, secondo cui le spese generali di manutenzione delle parti comuni dell’edificio vanno ripartite in quote uguali tra i condomini, giacché il diverso e legale criterio di ripartizione di dette spese in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascun condominio (art. 1123 c.c.) è liberamente derogabile per convenzione (quale appunto il regolamento contrattuale di condominio). Lo ha affermato la Cassazione nell’ordinanza 22824/13.
Il caso
Un’attrice aveva chiesto al Giudice di Pace di ingiungere alla società debitrice il pagamento di oltre 2.000€. Emesso il decreto ingiuntivo, la parte ingiunta aveva proposto opposizione, eccependo l’inesistenza dei presupposti per la concessione del decreto e l’erronea qualificazione degli oneri condominiali.
Accolta l’opposizione, in sede d’Appello, la fondatezza della domanda proposta in sede monitoria era stata ridotta al riconoscimento della sola irrisoria somma di 19,57€, a fronte di quella originariamente richiesta, ben più cospicua. Contro tale decisione, l’attrice originaria, in Cassazione, ha dedotto falsa applicazione dell’art. 1123 c.c. (ripartizione delle spese parti comuni).
Per la Suprema Corte tale doglianza è manifestamente infondata. Il criterio legale di ripartizione delle spese condominiali può essere derogato. Gli Ermellini hanno ricordato che – come già correttamente rilevato in secondo grado – il criterio legale di ripartizione delle spese condominiali, prescritto dal combinato disposto degli artt. 1123 c.c. e 68 disp. att. c.p.c., può essere derogato, essendo disponibile il diritto di contribuzione o riparto, relativo alle dette spese, mediante convenzione che, per sua natura contrattuale, presuppone il consenso di tutti condomini.
Nel caso in esame, in base a quanto dichiarato da Piazza Cavour, il regolamento condominiale possiede natura contrattuale e risulta richiamato nel contratto locativo: dunque, sotto tale profilo, non si è concretizzata alcuna violazione di norme di legge.
Fondata è stata ritenuta, invece, l’ulteriore doglianza della ricorrente, la quale ha denunciato violazione delle norme che regolano l’onere probatorio a carico delle parti.
Infatti, la ricorrente, quale attrice in senso sostanziale e portatrice della pretesa attivata, avrebbe dovuto, nel corso dei precedenti gradi di giudizio, supportare le sue ragioni di credito, per mezzo di ogni necessaria produzione documentale.
Invece, nel primo grado di giudizio, la parte non aveva assolto idoneamente all’onere probatorio incombente a suo carico, per contro, il Tribunale, aveva ritenuto di sopperire a tali carenze istruttorie, disponendo l’ammissione di una c.t.u. non richiesta da alcuno.
Tuttavia, il Collegio ha richiamato la prevalente giurisprudenza di legittimità, secondo cui le parti non possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente neppure nel caso di c.t.u. c.d. «percipiente» – che può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova -:anche in tale ipotesi, se le parti stesse non deducono quantomeno i fatti e gli elementi specifici posti a fondamento di tali diritti, non si può procedere all’espletamento di c.t.u. Alla luce di ciò, questo motivo è stato accolto, mentre l’altro rigettato.
http://www.lastampa.it/2014/01/15/itali … agina.html
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