L’insula
L’insula era una tipologia edilizia che costituiva, in buona sostanza, il condominio dell’antica Roma tardorepubblicana e, poi, imperiale.
Nella forma più tipica si trattava di edifici quadrangolari, con cortile interno (cavedio), talvolta porticato, sul quale erano posti i corridoi di accesso alle varie unità abitative (diremmo oggi gli "appartamenti").
Questi edifici erano composti da un piano terra, in genere destinato a botteghe di vario genere (tabernae), dotate di un soppalco per deposito di materiali e/o alloggio degli artigiani più poveri, e da piani superiori, destinati agli alloggi, via via meno pregiati verso l’alto.
Le unità avevano in genere da tre a dieci vani, tra i quali uno di solito era di dimensioni maggiori rispetto agli altri e in posizione migliore. Il primo piano, solitamente, ospitava le abitazioni di maggior pregio, spesso servite da una balconata lignea o in muratura su mensole, che percorreva l’intero affaccio stradale.
Il prospetto a mattoni, in genere, non veniva intonacato, ma l’effetto policromo poteva comunque essere determinato dall’uso di laterizi di colori e
tonalità diverse per i vari elementi architettonici.
I solai e le coperture erano spesso sostenute da volte, che garantivano maggiore stabilità.
Mancavano i servizi igienici, essendo notoriamente usate a tale scopo le latrine pubbliche e le terme.
Strada con insulae a Ostia antica A Ostia antica se ne conservano diverse tipologie, a volte riunite in caseggiati che comprendevano anche spazi per attività artigianali e servizi comuni (per esempio il caseggiato di Diana).
In particolare a Roma, si trattava di veri e propri palazzi di appartamenti in affitto (cenacula). Ampie parti (solai, sopraelevazioni, ballatoi) erano costruite in legno e a volte le nuove costruzioni si appoggiavano ai muri perimetrali di quelle precedenti, appoggiandosi le une alle altre.
A causa dell’affollamento del centro cittadino, gli edifici erano giunti a svilupparsi in altezza anche sino a 10 piani, nonostante il tentativo di limitarne l’altezza per legge: sotto Augusto, il limite massimo di altezza era stato fissato a 70 piedi, pari a poco meno di 21 m, ma di fatto venivano tollerate entro certi limiti le sopraelevazioni in materiali più leggeri. In media comunque i piani erano quattro.
Le insulae di epoca imperiale (soprattutto a partire da Traiano e Adriano) furono caratterizzate da una notevole uniformità e razionalità nell’impianto, che erano frutto di quella particolare mentalità dei ceti mercantili e urbani ai quali esse erano destinate.
La costruzione delle insulae e il loro affitto costituiva, in particolare a Roma, una importante fonte di reddito e di affari, e delle vere e proprie speculazioni vennero messe in atto in alcuni casi, risparmiando sulla quantità e qualità dei materiali da costruzione.
Giovenale e Marziale tra la fine del I secolo e gli inizi del II, danno un vivido quadro della vita in queste abitazioni, tra il pericolo di crolli e incendi.
Dopo il grande incendio di Roma, l’imperatore Nerone dettò norme molto severe per la costruzione delle insulae, proibendo che avessero muri perimetrali comuni e altezze superiori ai 5 piani. Decretò inoltre che tutti gli edifici fossero costruiti prevalentemente in pietra e dotati di portici sporgenti dalla facciata, con servitù pubblica di passaggio e attrezzature antincendio. Traiano, a sua volta, restrinse i limiti di altezza imposti da Augusto, portandoli a 60 piedi (poco meno di 18 m).
Le norme furono tuttavia largamente disattese e, tra la fine del II e gli inizi del III secolo, l’insula Felicles, nel Campo Marzio, viene citata quasi proverbialmente da Tertulliano (Adversus Valentinianos, 7) per la sua altezza straordinaria.
http://it.wikipedia.org/w/index.php?oldid=37063969
Il vicino di casa
Affollamento e incomunicabilità nell’antica Roma
Un condominio di Roma antica non era molto diverso da uno dei nostri tempi: anche allora esistevano caseggiati di quattro o cinque piani, divisi in tanti appartamenti, piccoli e grandi.
Se ne può avere un’idea visitando gli scavi di Ostia antica, più che quelli di Pompei.
Questo perché nella città campana prevale la tipologia della domus, cioè la casa ad un piano, destinata ad una sola famiglia. Ad Ostia Antica invece si possono vedere edifici con più piani, l’edilizia popolare dell’epoca, talvolta integri fino al terzo livello.
Se si visita il quartiere dove c’è l’insula di Diana, nella strada del Thermopolium (un’antica tavola calda) si nota un ingresso, quasi di fronte al locale.
Si possono salire gli alti scalini fino al pianerottolo del secondo piano, e da una finestrella ci si può affacciare sulla stradina sottostante.
Il poeta Marco Valerio Marziale, epigrammista del I secolo d.C., prima di entrare in possesso di una piccola domus, omaggio dell’imperatore Domiziano, abitava al terzo piano di uno di questi edifici, in via del Pero (ad Pirum), sul colle del Quirinale.
Nell’antica Roma le vie non avevano dei nomi precisi (a parte le poche, importanti, nel Foro e nei dintorni: la Via Sacra per esempio) e neppure numeri civici.
Si identificavano perché erano vicine a qualcosa di importante o di molto conosciuto: un tempio, un monumento, una fontana.
Nella strada di Marziale doveva esserci un grosso pero. Dunque si arrivava in zona e si chiedeva in giro, a qualche negoziante, ai passanti, un po’ come si fa oggi a Tokio.
Sentite come il poeta ci parla del vicino di casa, e della vita condominiale del tempo, in un suo epigramma.
I LXXXVI “È mio vicino e con la mano
Si può toccare Novio dalle mie finestre.
Chi non mi invidia e non mi reputa beato ad ogni ora, potendo io godere di un compagno così intimo?
Ma per me è lontano quanto Terenziano che ora amministra Siene sul Nilo.
Non riesco a cenarci e nemmeno a vederlo, non posso sentirlo, in tutta Roma non c’è chi mi sia così distante e così accanto.
C’è da emigrare più lontano io o lui.
Vicino o coinquilino sia di Novio, chiunque non ha voglia di vedere Novio”
(traduzione di Miro Gabriele)
Dunque era difficile incontrarsi con i vicini di casa in un condominio antico, ieri come oggi, anche se si abitava nell’appartamento accanto.
Sembra proprio di essere in uno di quegli enormi edifici che si incontrano lungo le strade dei nostri quartieri popolari e delle nostre sterminate periferie. Spazi enormi, spesso più caseggiati intorno a un grande cortile.
Quante esistenze nascoste, su per le innumerevoli scale, quante persone che vivono vite parallele alle nostre, che non incontreremo mai, e di cui non avremo mai conoscenza.
Talvolta ci giungono notizie, liete o tristi, di uomini e donne che hanno abitato accanto a noi per anni, qualcuno ci dice un nome, e noi, con meraviglia o con indifferenza, non riusciamo ad associarci neppure un volto.
Era così anche una volta.
I grandi imperi della storia hanno edificato le loro capitali, le loro metropoli, e in quel tempo che ormai è cenere, hanno vissuto, gli uni accanto agli altri, generazioni di persone.
Uomini che hanno visto crescere e prosperare le civiltà, che le hanno viste cadere nella polvere, e che hanno trascorso le loro semplici vite quotidiane attraverso i secoli, tutte uguali.
Il condominio dello scrittore è un pezzo di mondo antico (fisico e spirituale) che replica il nostro: anche qui sovraffollamento, incomunicabilità, invisibilità in mezzo alla massa.
Corsi e ricorsi, anelli del tempo, sempre la stessa in fondo la vita.
Ma uno di quegli uomini Marziale l’ha salvato, l’ha sottratto alla folla anonima e indistinta, ce ne ha dato testimonianza.
Si chiamava Novio, ha abitato a Roma duemila anni fa, al terzo piano di un caseggiato in via del Pero, sul Quirinale.
Era vicino di casa di un grande poeta.
http://www.instoria.it/home/vita_condom … a_roma.htm
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