Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?
Riporto di seguito un articolo tratto dal blog http://alicezanuttoliberoit.blogspot.com che ho trovato di “attualità”.
Si racconta che un giorno un soldato chiese a Gesù: Cos’ è la verita?
…e Gesù tacque!
Ma noi non siamo Dei e raramente facciamo silenzio.
Siamo costretti dalla vita a cercare delle ragioni oggettive che ci forniscano le ragioni di fondo del nostro vivere il quotidiano.
E quando la vita tocca i suoi estremi e manifesta la sua fragilità, siamo costretti a scegliere ciò che riteniamo essere il meglio per noi.
Il punto della questione è questo:
Noi uomini non siamo Dei, ma ci comportiamo come se lo fossimo!
Manifestiamo le nostre idee in modo “oggettivo”, escludendo che altri possano avere un punto di vista diverso dal nostro.
Rifiutiamo nella gran parte dei casi di dichiarare la nostra incapacità di conoscenza dell’ assoluto, e la disponibilità di cercare “insieme” una verità sconosciuta.
E così le nostre posizioni si irrigidiscono; si fabbricano muri di idee dietro i quali ci barrichiamo per sentirci sicuri.
Invece sarebbe necessario abbatterli i muri per riuscire a capire la vita!
E per vedere la vita come realmente è niente giova quanto la realtà della morte:
Immagino di essere presente al mio funerale, Vedo il mio corpo nella bara…
Odoro i fiori e l’ incenso… Assisto ad ogni particolare dei riti funebri…
I miei occhi si posano brevemente su ogni persona presente al funerale…
Ora capisco quanto poco hanno da vivere essi stessi…
solo che non ne sono coscienti.
In questo momento la loro mente non si concentra sulla loro morte o sulla brevità della loro vita, ma su di me.
Questo è il mio giorno di spettacolo, la mia ultima grande sceneggiata sulla terra, l’ ultima volta che sarò al centro dell’ attenzione.
Ascolto ciò che il prete dice di me nell’ omelia…
E mentre esamino con lo sguardo i volti dei presenti noto con piacere che mi rimpiangono.
Lascio un vuoto nei cuori e nella vita degli amici…
Mi toglie ogni illusione il pensare che possono esserci persone tra la folla che sono contente che me ne sono andato.
Seguo la processione verso il cimitero…
Vedo il gruppo in piedi, in silenzio presso la tomba mentre si recitano le ultime preghiere…
vedo la bara scendere nella tomba, il capitolo conclusivo della mia vita…
Penso sia stata un’ esistenza decorosa, nonostante tutti i suoi alti e bassi… i suoi periodi di eccitazione e monotonia… i suoi successi e le sue frustrazioni…
Mi fermo accanto alla tomba a rievocare capitoli della mia vita mentre la gente ritorna alle proprie case, ai piccoli quotidiani compiti, ai suoi sogni e alle sue pene…
Passa un anno e ritorno sulla terra.
I vuoti dolorosi che ho lasciato vanno ordinatamente colmandosi.
La memoria di me sopravvive nei cuori degli amici, ma essi mi pensano meno.
Ora aspettano con ansia le lettere di altri, si rilassano in compagnia di altri; altri sono diventati importanti nella loro vita e così dev’ essere: la vita deve continuare…
Visito la scena del mio lavoro. Se ancora continua, qualcun’ altro lo sta facendo, qualcun’ altro prende le decisioni…
I luoghi che ero solito frequentare appena un anno fa: i negozi, le strade, i ristoranti… sono tutti là.
E sembra non avere alcuna importanza che io abbia camminato per queste strade e visitato quei negozi e viaggiato su quegli autobus.
Nessuno sente la mia mancanza. Non quì!
Ricerco i miei effetti personali come il mio orologio, la mia penna… e quelle cose che avevano per me un valore sentimentale: souvenir, lettere, fotografie…
E i miei mobili….i miei abiti…i miei libri…
Torno per il cinquantesimo anniversario della mia morte e mi guardo intorno per vedere se qualcuno si ricorda ancora di me o parla di me….
Passano cento anni e torno di nuovo. Eccetto una o due fotografie sbiadite in un album o su un muro e l’ iscrizione sulla mia tomba, poco resta di me…
Neppure il ricordo degli amici, perchè nessuno di loro esiste più.
Insisto nel cercare qualche traccia della mia esistenza, eventualmente rimasta sulla terra…
Guardo nella mia tomba, e trovo nella bara un pugno di polvere e le ossa sbriciolate.
Poso gli occhi su quella polvere e ripenso alla mia vita: I trionfi…le tragedie… le ansie e le gioie gli sforzi, i conflitti… le ambizioni, i sogni… gli amori che costituivano la mia esistenza …tutto è sparso nel vento, assorbito dall’ universo….
Solo un po’ di polvere resta ultima tenue traccia di questa mia vita!
Contemplando quella polvere è come se un peso enorme mi venisse tolto dalle spalle…
il peso che deriva dal pensare che io conti qualcosa….
Poi alzo gli occhi, e contemplo il mondo intorno a me… …gli alberi, gli uccelli, la terra, le stelle, il sole che splende, il pianto di un bimbo, un treno che corre, la folla che va di fretta…
la danza della vita e dell’ universo…. e so che, da qualche parte, in tutto questo ci sono i resti di quella persona che rispondeva al mio nome…..
e di quella vita che chiamavo mia.
Il sale della terra
«Capire le ragioni della fatica è la suprema cosa nella vita,
perché l’obiezione più grande alla vita è la morte e l’obiezione più grande
al vivere è la fatica del vivere; l’obiezione più grande alla gioia sono
i sacrifici… Il sacrificio più grande è la morte» (don Giussani).
Che società è quella che chiama la vita “un inferno” e la morte “una liberazione”?
Dov’è il punto di origine di una ragione impazzita, capace di ribaltare bene e male e, quindi, incapace di dare alle cose il loro vero nome?
L’annunciata sospensione dell’alimentazione di Eluana è un omicidio. La cosa è tanto più grave in quanto impedisce l’esercizio della carità, perché c’è chi si è preso cura di lei e continuerebbe a farlo.
Nella lunga storia della medicina il suo sviluppo è diventato più fecondo quando, in epoca cristiana, è cominciata l’assistenza proprio agli “inguaribili”, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini “sani”, lasciati morire fuori dalle mura della città o eliminati.
Chi se ne fosse occupato avrebbe messo a rischio la propria vita.
Per questo chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell’altro uomo, per il suo valore infinito perché immagine di Dio creatore.
Così il caso Eluana ci mette davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita: non ci facciamo da soli. Siamo voluti da un Altro. Siamo strappati al nulla da Qualcuno che ci ama e che ha detto: «Persino i capelli del vostro capo sono contati».
Rifiutare questa evidenza vuol dire, prima o poi, rifiutare la realtà. Persino quando questa realtà ha il volto delle persone che amiamo.
Ecco perché arrivare fino a riconoscere Chi ci sta donando la presenza di Eluana non è un’aggiunta “spirituale” per chi ha fede. È una necessità per tutti coloro che, avendo la ragione, cercano un significato. Senza questo riconoscimento diventa impossibile abbracciare Eluana e vivere il sacrificio di accompagnarla; anzi, diventa possibile ucciderla e scambiare questo gesto, in buona fede, per amore.
Il cristianesimo è nato precisamente come passione per l’uomo: Dio si è fatto uomo per rispondere all’esigenza drammatica – che ognuno avverte, credente o no – di un significato per vivere e per morire; Cristo ha avuto pietà del nostro niente fino a dare la vita per affermare il valore infinito di ciascuno di noi, qualunque sia la nostra condizione.
Abbiamo bisogno di Lui, per essere noi stessi. E abbiamo bisogno di essere educati a riconoscerLo, per vivere.
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