Lo shale gas (estratto dalle rocce con perforazione idraulica) non è solo una rivoluzione energetica, ma anche geopolitica. Gli Usa sognano l’indipendenza dalle importazioni dal 2030. Medio Oriente e Russia si indeboliranno. La Ue ha giacimenti importanti in Romania e Polonia. Ma difficilmente li sfrutterà a pieno.
Lo shale gas ha rivoluzionato il mondo dell’energia. Si tratta di gas naturale racchiuso in particolari formazioni di rocce, per la cui estrazione si ricorre a una perforazione idraulica con impiego di solventi e pompaggio massiccio di sostanze liquide. Un pozzo tradizionale di gas è generalmente una formazione unica di grandi dimensioni; per lo shale, dobbiamo pensare a tante formazioni più piccole, che vengono perforate tramite una tecnica definita “fracking”.
È a causa dello shale se in Nord America il prezzo del petrolio è più basso rispetto all’Europa. Negli Usa il riferimento è dato dalle quotazioni del Wti, che da più di un anno si mantengono circa venti dollari inferiori a quelle del Brent europeo. Petrolio e gas non sono immediatamente sostituibili: serve tempo perché i consumatori inizino a impiegare gas per le autovetture o per il riscaldamento domestico. L’informazione che le riserve statunitensi potrebbero coprire 45 anni di fabbisogno hanno però incoraggiato la sostituzione. Da qui la differenza nel prezzo del petrolio: l’impatto del gas è stato tale che, secondo l’Energy Information Administration, entro il 2021 gli USA diventeranno esportatori netti di gas.
Gioiscono finalmente i fautori dei piani di “indipendenza energetica” americana. Non è niente di “repubblicano”: si tratta di qualcosa che anche il presidente democratico Barack Obama aveva messo in programma all’inizio del primo mandato – anche se il successo attuale dipende da politiche iniziate molti anni prima. Il sogno dello shale, nonostante le critiche di molti ambientalisti, ha stregato anche la Cina, ma la disponibilità limitata di acqua sembra ridurre le possibilità di sfruttamento. Si calcola che al mondo ci siano 6.600 piedi cubi di gas recuperabile, di cui 4.600 fuori dal Nord America. Da qui, si è parlato di estrarre gas anche in Europa, fino alla regione del Bordeaux – un’idea che ha ispirato ai francesi prima una risata, e poi un’occhiata di sufficienza, di quelle che hanno reso i cugini popolari in tutto il mondo.
Gli effetti geopolitici della rivoluzione shale iniziano anch’essi a ispirare nuovi scenari sui rapporti di forza internazionali. La posizione della Russia verso l’Europa si potrebbe indebolire. Ciò potrebbe dipendere anche dal gas americano: le esportazioni di gas liquefatto per nave potrebbero iniziare a salpare dal continente già tra quattro anni. Il potenziale di territori europei come la Romania e la Polonia è ancora da esplorare, posto che un continente così densamente abitato come il nostro sia pronto a correre il rischio ecologico legato allo shale.
La Russia inizia già a soffrire per la presenza del gas americano – perché ancora di “competizione” non si può parlare. Anche a causa del consumo in diminuzione, il prezzo del gas è in discesa. Il gas in America è venduto a circa 3 dollari per milione di BTU (British Thermal Units, è un’unità di misura del gas), e Mosca ha dovuto rivedere la sua politica commerciale a 10 dollari per milione di BTU, cioè il simpatico prezzo negoziato con gli europei. Il problema principale dei russi è che hanno stabilito un prezzo di riferimento di petrolio per il pareggio del bilancio nazionale a 117 dollari al barile per il 2012, mentre la media del mix “Ural” per l’anno è a circa 113 dollari. Secondo un report governativo segnalato da Reuters (http://www.reuters.com/article/2012/07/ … UO20120709), è necessario che il prezzo si mantenga superiore ai 100 dollari fino al 2015, per assicurare la stabilità delle casse del Cremlino. Analoghi problemi devono essere affrontati da Iran (break even a 117 dollari), Iraq (112 dollari), Libia (117 dollari) e Algeria (105 dollari).
Negli Stati Uniti si sogna oltre: si parla di raggiungere l’indipendenza dalle importazioni di petrolio verso il 2030. Da qui, si parla di un piano di disinteressamento progressivo verso il Medio Oriente. Se negli anni Ottanta il segretario di Stato Alexander Haig parlava di Israele come «la più grande portaerei americana al mondo, che peraltro non può essere affondata», con lo shale sarebbe arrivato il momento di lasciarsi alle spalle quasi un secolo d’interessamento nelle vicende dei territori tra Iran e Marocco. A poco vale ricordare il fatto che le ragioni della politica mediorientale americana vanno oltre il mero interesse petrolifero. Nello shale, gli americani trovano ragione di realizzare quell’ambizione d’isolazionismo che riguarda destra e sinistra. (http://theeuropean-magazine.com/522-cas … iddle-east).
Si trascura il rischio che l’ordine in Medio Oriente potrebbe essere dettato da una nuova potenza – sia la Cina o la stessa Russia – e che ciò rappresenterebbe una perdita epocale per Washington.Tutto questo ricorda una storia già successa: il crollo del prezzo del petrolio nel maggio del 1986. Nel primo giorno del suo mandato, il 21 gennaio del 1981, il presidente rimosse un sistema di controlli sui prezzi petroliferi risalente ai tempi di Nixon. Furono permesse nuove esplorazioni, o aumentarono in volume, in Alaska, nel Golfo del Messico, nel Mare del Nord. Nel 1983 aprirono le contrattazioni petrolifere al NYMEX di New York. Alla fine, stante anche la crisi economica iniziata alla fine degli anni Settanta (ricorda qualcosa?), la domanda di petrolio crollò: con la nuova offerta, il prezzo del barile scese sotto i dieci dollari al barile. Secondo alcuni commentatori, ciò portò alla crisi sovietica (Peter Schweizer, Victory: The Reagan Administration’s Secret Strategy That Hastened the Collapse of the Soviet Union, Atlantic Monthly Press).
Alla fine, il crollo del barile nel 1986 colpì duramente anche l’industria domestica americana. L’allora vice-presidente George Bush (padre!) volò verso l’Arabia Saudita per chiedere agli amici arabi di contenere un minimo la produzione (nella seconda metà del 1985 avevano di fatto rinunciato a tagliare i barili). Lo stesso sta succedendo per il gas. Aziende di servizi estrattivi come Schlumberger e Baker Hughes non hanno centrato gli obbiettivi di profitto per il terzo trimestre dell’anno. Anche la regina delle aziende petrolifere, la Exxon, è finita sotto bagno: nel 2010 ha pagato 25 miliardi di dollari per acquisire XTO, un’azienda specializzata nel fracking, ma sembra difficile che l’investimento possa essere recuperato. Il CEO e Presidente di Exxon, il leggendario Rex Tillerson, ha dichiarato già a luglio che sullo shale gli investitori ci stavano “rimanendo in mutande” (“losing our shirt”). Peccato che stavolta non ci sia un’Arabia Saudita del gas verso cui volare, per chiedere di tenere i prezzi un po’ su.
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