Rumore del cane che abbaia
Che succede se il cane abbaia di continuo e i padroni, magari colpevoli nel lasciarlo più ore solo o, comunque, incustodito, non prendono provvedimenti? Scatta il reato di disturbo della quiete e delle occupazioni delle persone. Infatti, secondo una recente sentenza della Cassazione [1], tutte le volte in cui il continuo abbaiare dell’animale dà fastidio ai vicini di casa e a tutto il circondario non c’è modo di evitare la condanna penale.
Le proteste dei condomini, continuamente disturbati dall’abbaiare dell’animale, inchiodano il padrone del quadrupede se dalle loro testimonianze risulta chiara l’inerzia di chi è tenuto alla sorveglianza del cane che non si è dato pena di porre rimedio al problema.
Il reato di disturbo del riposo e delle occupazioni delle persone tutela i casi i cui il rumore arrechi molestia a un numero indeterminato di persone. Se, invece, il latrato finisce per rendere insonni le notti soltanto di uno o pochi condomini vicini, perfettamente individuabili, si può attivare solo la tutela risarcitoria prevista dal codice civile.
Nel caso di specie a far scattare il reato è stato il comportamento indifferente del padrone dell’animale, non avendolo tenuto sotto controllo. Irrilevante è stata ritenuta la circostanza che il veterinario, incaricato dall’Azienda sanitaria, avesse accertato che il cane era ben tenuto e che i proprietari erano consapevoli circa le corrette modalità della sua gestione ed educazione.
Sono i testimoni a giocare il ruolo decisivo nel processo penale: confermando che i rumori sono continui nell’arco di tutta la giornata, non limitati a una fascia oraria, e sono tali da disturbare l’occupazione, lo studio, la vita quotidiana dei vicini di casa, senza che i proprietari del cane abbiano mai provveduto, pur essendo stati più volte sollecitati, a trovare una soluzione, la condanna non ha vie d’uscite (salva, eventualmente, l’archiviazione per tenuità del fatto).
La sentenza
Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 17 marzo – 4 giugno 2015, n. 23944
Presidente Squassoni – Relatore Andronio
Ritenuto in fatto
1. – Con sentenza del 25 luglio 2014, il Tribunale di Como ha – per quanto qui rileva – condannato gli imputati alla pena dell’ammenda in relazione al reato di cui all’art. 659, primo comma, cod. pen., per avere disturbato le occupazioni e il riposo di coloro che abitano nelle vicinanze della loro abitazione, non impedendo gli strepiti e gli abbai del loro cane (fino al 18 marzo 2010).
2. – Avverso la sentenza gli imputati hanno proposto, tramite il medesimo difensore, ricorsi per cassazione di contenuto analogo, chiedendone l’annullamento.
2.1. – Con un primo motivo di doglianza, si rileva l’inosservanza dell’art. 2, comma 2, lettera b), n. 2), della legge n. 67 del 2014, la quale delega il governo a trasformare in illecito amministrativo il reato cui all’art. 659 cod. pen. Ad avviso della difesa, tale delega legislativa avrebbe un immediato effetto di depenalizzazione della fattispecie.
2.2. – In secondo luogo, si rileva l’erronea individuazione del tempus commissi delicti, perché non si sarebbe considerato che, secondo i testimoni indotti dal pubblico ministero, i rumori sarebbero cessati nel 2009, con conseguente prescrizione del reato prima della pronuncia della sentenza impugnata.
2.3. – Si denunciano, infine, la manifesta illogicità e la contraddittorietà della motivazione quanto alla valutazione delle dichiarazioni rese dai testimoni della difesa. Non si sarebbe considerato, in particolare, che questi ultimi avevano escluso l’intollerabilità di guaiti del cane e l’inerzia dei proprietari. In particolare, il medico veterinario incaricato dalla Asl aveva accertato che il cane era ben tenuto e che i proprietari erano consapevoli circa le corrette modalità della sua gestione ed educazione; mentre altri testimoni avevano precisato che i rumori riguardavano solo la mattina e il primo pomeriggio, orari nei quali la maggior parte dei condomini dei complesso residenziale erano fuori di casa.
Considerato in diritto
3. – Il ricorso è inammissibile.
3.1. – Il primo motivo di doglianza – con il quale si prospetta l’erronea applicazione dell’art. 2, comma 2, lettera b), n. 2), della legge n. 67 del 2014 – è manifestamente infondato. La disposizione in questione non ha, infatti, l’effetto di depenalizzare le fattispecie incriminatrici previste dall’art. 659 cod. pen., perché reca semplicemente una delega al Governo ad adottare uno o più decreti legislativi in tal senso. L’adozione di tali decreti legislativi costituisce, peraltro, come in ogni fattispecie di delegazione legislativa a norma dell’art. 76 Cost., una mera facoltà e non un obbligo per il Governo; con la conseguenza che potrà aversi la depenalizzazione della fattispecie incriminatrice solo a seguito dell’intervento normativo del Governo stesso (cfr., in senso analogo, Cass. pen., sez. 1, 19 settembre 2014, n. 44977, rv. 261124).
3.2. – Il secondo motivo di doglianza – relativo al tempus commissí delicti – è formulato in modo non specifico. Infatti la difesa non tiene conto, neanche a fini di critica, delle dichiarazioni dei testimoni indotti dal pubblico ministero (in particolare, Conte e Segafredo), dalle quali emerge – secondo la corretta analisi svolta dal Tribunale – che gli stessi hanno percepito i rumori per tutto l’anno 2009. Ne consegue, che se anche la consumazione del reato fosse collocata alla fine dell’anno 2009 anziché, come nell’imputazione, al 18 marzo 2010, la prescrizione – eventualmente maturata alla fine del 2014, ovvero dopo la pronuncia della sentenza impugnata – non potrebbe comunque essere dichiarata, essendo preclusiva in tal senso l’inammissibilità del ricorso per cassazione.
3.3. – Genericamente formulato e anche il terzo motivo di doglianza, relativo alla motivazione della sentenza circa la normale tollerabilità dei rumori e la gestione del cane da parte degli imputati. Quanto al primo profilo, è sufficiente qui richiamare le valutazioni di fatto contenute nella sentenza impugnata – del tutto coerenti e corrette e, dunque, non sindacabili in questa sede – secondo cui, da tutte le testimonianze raccolte, complessivamente valutate, è emerso che i rumori erano continui nell’arco di tutta la giornata e non erano limitati alla sola mattinata e che gli stessi disturbavano l’occupazione, lo studio, la vita quotidiana dei vicini, senza che i proprietari del cane provvedessero in alcun modo, pur essendo stati più volte e da più parti sollecitati. Quanto, poi, alle dichiarazioni rese dall’ispettore veterinario della Asl, le stesse sono irrilevanti ai fini della sussistenza del reato contestato, perché non si riferiscono ai rumori prodotti, ma solo alle generali condizioni nelle quali si trovava il cane. Né dalle stesse è emerso che i proprietari si fossero in qualche modo adoperati per evitare i rumori in questione.
4. – Ne consegue che i ricorsi devono essere dichiarati inammissibili.
Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell’inammissibilità medesima consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., l’onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in € 1.000,00.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 1.000,00 ciascuno in favore della Cassa delle ammende.
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