Vent’anni fa ci lasciava Andrea Pazienza. Non ho mai saputo molto di lui, nel periodo della sua fulminea, e fulminante carriera, attraversavo una fase di ripiegamento su me stessa, sbalestrata da quegli Ottanta che i parolai attuali, semplificatori delle coscienze, inflazionano con l’immeritato aggettivo "favolosi". E che invece – parafrasando Paolo Rossi – furono veramente di merda. Gli anni dell’edonismo reaganiano, della Milano da bere, del craxismo (antenato del berlusconismo, già rampante in tv), di Sotto il vestito niente.
Questa la non-cultura dominante, incubazione/incubo maligno dello sfacelo odierno. Ma in quel riassettarsi del Potere, nel reazionarismo di ritorno, tecnologico e invasivo, resistevano plaghe di voci libere, scorrette, fugaci anch’esse, come il periodo che vivevano – o, forse, subivano -, senza tetto né legge, anarchici del sentimento prima che del pensiero.
Erano i sussulti delle ultime radio indipendenti, gli stordimenti tondelliani, le frasi smozzicate di Vasco Rossi, l’anima libertaria e reduce che venivano immortalati nei tratti nervosi di "Paz". Per ironia della sorte, quel nome che evocava virtù secolari era poi riassunto nel secco contrappunto d’uno sparo da fumetti, "Paz", interruzione esso stesso, nulla di completo, nemmeno nella follia: nulla di catalogabile, e la spirale della frammentazione e dell’incompiutezza restavano la sigla del genio di Andrea. Unico e definito proprio perché mozzato, come la gioventù schieliana dei suoi personaggi segaligni, strappati, adunchi, d’una creatività più ferita che malata, o entrambe le cose; ma consapevole che il futuro prossimo le era precluso, e non le restava che annullarsi, smarginata in un fondo di bottiglia.