Piace ricordarli così. Nel cono d’ombra della chiesa sconsacrata, mentre lontano, nell’orizzonte spumeggiante, sagome di ragazzi sciamano indolenti come libellule azzurre. Basta un fazzoletto d’erba, una panchina senza tempo, per delimitare il miracolo di due mondi. Il garrulare rallenta e si perde, e persino la luce diventa oro antico, fresca seta. I due amanti emergono dalla sontuosa cornice.
Lui forse la sorregge, e guarda oltre il giardino. Ma la mano gli scompare dentro lo scialle rosa, e il volto è solcato da una beatitudine confortante. Splende una lacrima. Lei si appaga soltanto, e pienamente, di quel contatto. E’ in lui. Dentro di lui. S’inerpica, con una spericolatezza di bimba, fino alle sue labbra. Le sfiora. Le bacia. Risuona, quel gesto, di lucore adamantino. Casto e inebriato nella sua franchezza. Lo desidera, e sarà sua.
Il suo corpo è come un libro di meraviglie, uno scrigno di rubini. Ogni ruga una pagina. Ogni filo d’argento, una chioma di saggezza. Schiuma d’avventurosi mari. Un ticchettio avito nel variopinto, domestico universo di silenzi.
Sono rimasti soli. Saluteranno i figli dopo la visita serale. La mamma udrà i loro passi inghiottiti dall’asfalto. E allora le basterà un sospiro d’occhi, per volgersi al suo Gino.