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Parti comuni, controversie sulla loro proprietà

Parti comuni, controversie sulla loro proprietà

Di Alessandro Gallucci…

Prendiamo spunto dalla sentenza n. 14765 resa dalla Cassazione lo scorso 3 settembre per raccontare un fatto che riguarda più da vicino gli operatori del diritto che s’interessano di condominio negli edifici.

Nel condominio Alfa esiste una rampa, condominiale, che dà accesso ad un vano interrato. Uno dei condomini decide di apporre una sbarra alla rampa ed una porta al succitato vano. Alcuni condomini, non il condominio che “pilatescamente” se n’era disinteressato, contestano quella che a loro modo di dire era una vera e propria appropriazione d’una parte comune. “No!” – risponde seccamente chi aveva installato la porta – “quel vano interrato è mio ed ero nel pieno diritto di far ciò che ho fatto”. Da questa situazione di conflitto non poteva che nascerne un contenzioso. I condomini chiedevano la riduzione in pristino dello stato dei luoghi, il singolo che aveva operato in quel modo si opponeva ribadendo che aveva usucapito quella parte comune e che pertanto la sua condotta era da ritenersi pienamente legittima. In primo grado i condomini “contestatari” vedevano accolte le proprie ragioni. Il singolo decideva di fare appello: il giudizio di secondo grado, sia pur per motivi procedimentali, stravolgeva l’esito del precedente. In sostanza secondi i giudici del gravame la sentenza di prime cure doveva considerasi nulla perché il processo non era stato celebrato tra tutti i condomini come, invece, doveva essere vista la materia del contendere. Da qui il ricorso per Cassazione degli originari attori che contestavano questa pronuncia.

“Giudice, questo vano è mio!”

“Giudice, questo vano è mio?”

Il differente segno d’interpunzione permette di connotare le due affermazioni in modo diverso: la prima come eccezione riconvenzionale, la seconda come domanda riconvenzionale. Ed è attorno a questa distinzione che è ruotata la decisione della Suprema Corte di Cassazione.

Secondo i giudici di legittimità “ deve infatti sottolinearsi, conformemente all’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte, che l’eccezione riconvenzionale si differenzia dalla domanda riconvenzionale in quanto, con essa, il convenuto oppone a quello dell’attore un proprio diritto al solo fine di far respingere la sua pretesa, mentre con la domanda riconvenzionale mira ad ottenere, attraverso la decisione, l’utilità pratica attinente al diritto fatto valere (Cass. n. 4233 del 2012; Cass. n. 16314 del 2007; Cass. n. 22341 del 206). Con riferimento al tema che qui interessa, si è altresì precisato che il giudice, nell’esercizio del suo potere-dovere di controllare d’ufficio il rispetto del principio del contraddittorio nei casi di litisconsorzio necessario, deve prendere in considerazione esclusivamente le domande proposte dalle parti e non anche le eventuali eccezioni, ancorché riconvenzionali (Cass. n. 26422 del 2008). L’applicazione di tali principi comporta che, nel caso in esame, l’eccezione di usucapione sollevata dal condomino convenuto si risolveva nella richiesta di un accertamento che, essendo svolto soltanto incidenter tantum, era destinato ad esplicare efficacia soltanto tra le parti senza estendersi anche altri condomini, che, pertanto, non potendo essere pregiudicati, non dovevano necessariamente partecipare al giudizio” (Cass. 3 settembre 2012, n. 14765).

Insomma il giudizio di primo grado s’era svolto nel regolare contraddittorio visto che il condomino che aveva apposto la sbarra e installato la porta non aveva proposto una domanda riconvenzionale ma una semplice eccezione riconvenzionale che valeva solamente in quel processo.

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