Corte d’Appello di Milano 23.6.2015, n. 2680
Con questa, recentissima, Sentenza, che pare destinata a diventare il precedente giurisprudenziale di merito, attualmente, più rilevante in materia, la Corte d’Appello del capoluogo lombardo torna ad occuparsi della responsabilità dell’ente condominio in materia di risarcimento dei danni subiti dal singolo condomino a causa di fenomeni riconducibili a vizi costruttivi delle parti comuni dell’edificio ascrivibili al costruttore-venditore ed alla conseguente ristorabilità del pregiudizio c.d. non patrimoniale.
La vicenda trae origine dagli appelli, tanto principali che parziali, presentati sotto diversi profili dalle parti avverso la Sentenza n. 1230/13 emessa dal Tribunale di Monza in data 7.5.2013 che aveva visto gli attori, comproprietari di unità immobiliare facente parte di un condominio, convenire quest’ultimo, in proprio nonché quali esercenti congiuntamente la patria potestà sui due figli minori della coppia, affinché ne fosse accertata la responsabilità ex art. 2051 c.c. in ordine ai danni subiti a causa di fenomeni infiltrativi nonché di evidenti problemi di coibentazione dell’immobile con conseguente svilupparsi di muffe e macchie d’umidità all’interno dell’immobile di esclusiva proprietà degli attori.
Il Tribunale monzese aveva accolto le domande presentate statuendo la responsabilità dell’ente convenuto con conseguente condanna al risarcimento dei conseguenti danni patrimoniali riconoscendo, inoltre, punto ancor più rilevante, un congruo risarcimento dei danni non patrimoniali patiti e liquidato, equitativamente, sulla base dei parametri forniti dalla C.E.D.U.. Infine, aveva accolto la domanda di manleva presentata dal Condominio nei confronti dell’impresa edile costruttrice-venditrice del plesso immobiliare.
L’ appello presentato dagli attori, onde vedersi riconosciute ulteriori voci di danno, veniva in parte accolto, atteso un errore in cui era incorso il Giudice di prime cure, per quanto ai danni patrimoniali subiti accertati in C.T.U. ed erroneamente scomputati, mentre si è ritenuto che altre voci di danno non fossero da considerarsi sufficientemente provate.
L’appello incidentale svolto dall’Ente convenuto al fine di vedere estesa la manleva alla ulteriore somma cui veniva, eventualmente, condannato era accolto.
Viceversa, le domande svolte dall’impresa edile costruttrice-venditrice venivano disattese, se non limitatamente alla riduzione delle spese legali di primo grado che era tenuta a corrispondere alle controparti, secondo la Sentenza appellata, in virtù di una proposta transattiva formalizzata in sede di A.T.P. in corso di causa.
Qui i punti di diritto più rilevanti della Sentenza.
La Corte d’Appello meneghina ha, in primis, respinto la domanda di reiezione della manleva formulata dal condominio rilevando che gli attori avevano convenuto lo stesso quale custode dell’immobile. Nel farlo, la Sentenza in esame si muove nel solco tracciato da quell’orientamento, fatto proprio anche dalla Suprema Corte di Cassazione Cass. Sez. 2, Sentenza n. 18855 del 7.8.2013, ed ormai da considerarsi assolutamente consolidato, che riconosce, in presenza di danni provocati a parti di proprietà esclusiva dei singoli condomini, la responsabilità in capo al condominio in qualità di custode ex art. 2051 c.c. anche qualora detti danni siano dovuti a difetti costruttivi dell’immobile stesso. L’obbligazione risarcitoria, pertanto, risulta connessa alla qualità di custode dell’immobile nel momento in cui esso ha cagionato il danno.
Il condominio, nel costituirsi formulando la domanda di manleva, ha azionato una garanzia impropria (strutturalmente autonoma dalla causa principale) correttamente qualificata dal Giudice di prime cure quale ex art. 1669 c.c. e, poiché il termine annuale per la denuncia, previsto a pena di decadenza, decorre dal giorno della conoscenza obiettiva della gravità dei difetti e della loro derivazione causale dalla imperfetta esecuzione dell’opera (Cass. Civ. 4249/2010), ossia dalla relazione di un tecnico (Cass. Civ., Sez. II, 1.8.2003, n. 11740) anche le formulate eccezioni di decadenza venivano respinte. Il tutto dando il giusto rilievo, sulla scorta delle eccezioni formulate dalla difesa dell’impresa-venditrice, al fatto che l’ azione di responsabilità per rovina e difetti d’immobili può essere esercitata non solo dal committente contro l’appaltatore ma bensì anche dall’acquirente contro il venditore che risulti fornito della competenza tecnica idonea per dare, direttamente o tramite il proprio direttore lavori, indicazioni specifiche all’appaltatore esecutore dell’opera.
Rilevata, quindi, la presunzione di addebitalità dell’evento dannoso e della condotta colposa (eventualmente anche omissiva), la Corte ha rimarcato come costituisca onere preciso del venditore quello di provare di non aver avuto alcun potere di direttiva o di controllo sull’impresa appaltatrice al fine di superare detta presunzione (cosa non accaduta nel caso di specie).
Anche le contestazioni circa la liquidazione del danno non patrimoniale in favore degli attori venivano disattese.
A giudizio della Corte, infatti, è risultato documentato come, in ragione dei fatti per cui era processo, gli attori avessero patito per anni una situazione di grave disagio e con pregiudizio alla serenità personale ed alla vivibilità della casa.
Oltre al rilievo dato alla certificazione d’antigienicità dell’immobile emessa dall’ASL competente ed alla documentata insorgenza in uno dei figli minori degli attori di allergie riconducibili alla presenza della muffa, ha evidenziato come la prova ben poteva essere acquisita per il tramite di presunzioni sulla base delle nozioni di comune esperienza (Cass. CIv., sez. III, n. 26899/2014) e che, pertanto, era provata una significativa lesione degli interessi della persona umana costituzionalmente garantiti ed, in particolare, del diritto all’abitazione ed alla salute.
Il tutto in ossequio alla interpretazione aggiornata alla luce delle più recenti interpretazioni dottrinali e giurisprudenziali delle c.d. Sentenze di San Martino (Cass. Civ. Ss. UU. 26972 del 15.11.2008; id. Sez. III, n. 20684/2009) in quanto l’entità del danno non era da ritenersi futile né consistita “in meri disagi o fastidi ovvero nella lesione di diritti del tutto immaginari come quello alla qualità della vita o alla felicità”.
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