NEW YORK. Non c’è niente di più pericoloso che illudersi di aver trovato una soluzione semplice a un problema complesso. Abbassiamo la guardia, sottovalutiamo l’impresa, diventiamo vulnerabili. Vale per molti campi della vita, finanza inclusa. Ed è il difetto cognitivo che ha innescato la crisi in cui annaspiamo dal 2007. Il problema era calcolare quante, tra migliaia di persone che avevano preso un mutuo, rischiassero di non poterlo ripagare. Si è creduto di trovare la soluzione in una formula che pretendeva di mettere in relazione le probabilità di insolvenza di diligenti padri di famiglia con quelle di spiantati titolari di subprime che, in un mondo normale, non avrebbero mai ottenuto neppure un prestito per comprare una bici. In un mondo dominato dalla hubris dei quant, ovvero i maghi della finanza quantitativa, invece si pensava di poter estrarre per via algoritmica l’ordine da quel caos. Sappiamo com’è andata a finire. Tuttavia le Borse, dove si trattano derivati sempre più esoterici, sono dipendenti come non mai dalla sapienza di questi matematici o fisici prestati all’economia. Come dimostra la fila di studenti alle lezioni di Emanuel Derman, direttore del master di ingegneria finanziaria alla Columbia University, un sessantenne sudafricano, laureato in fisica delle particelle, che le cronache spesso definiscono «l’Einstein di Wall Street».
Nel Graduate Office, l’ufficio per gli studenti proprio davanti alla sua stanza, si leggono nove nomi: Liu, Huang, Qiu, Li, Guo, due Wang e due Chen. Cento per cento di cinesi. «Nei miei corsi rappresentano circa il 70» spiega il professore «perché in genere sono molto bravi in matematica e vedono questo come un modo rapido per fare soldi». Intanto pagano 36 mila dollari di retta, più quasi altrettanti per vivere un anno a New York. Nelle bacheche oltre metà degli annunci sono scritti in mandarino e molti di quelli comprensibili pubblicizzano servizi, tipo corsi di inglese, per i rampolli dell’Impero di mezzo. Se dalle loro parti la materia è diventata tanto sexy lo si deve a persone come David X. Li. Cresciuto nella Cina rurale durante gli anni ’60, era un fenomeno in matematica e, dopo un dottorato e un Phd in Canada, ha lavorato per JPMorgan e Barclays Capital. Deve la sua fama alla «funzione di copula gaussiana» che, semplificando al massimo, prometteva di esprimere con un numeretto unico le probabilità che due (o 10, 100, 1000) soggetti potessero fare default rispetto al debito contratto. Una formula elegante, semplice da applicare e perciò amata dalle agenzie di rating che dovevano valutare la rischiosità di panieri di mutui eterogenei. E tuttavia drammaticamente sbagliata, perché pretendeva di tenere insieme situazioni irriducibili.
Prima di procedere vi chiedo un piccolo supplemento di pazienza per comprendere, nell’esempio di Felix Salmon, il concetto di «correlazione». Immaginatevi Alice, di sei anni. Mettiamo che abbia le stesse probabilità, il 5 per cento, che i suoi genitori divorzino entro l’anno; di prendere i pidocchi; di vedere cadere la maestra su una buccia di banana. Titoli che scommettessero sul realizzarsi di questi eventi avrebbero più o meno lo stesso prezzo. Ma se volessimo quantificare in che misura il loro accadere possa influire sulla probabilità che succedano anche alla compagna di banco Britney? Il divorzio dei genitori di una non rileva su quello dei genitori dell’altra (correlazione 0). I pidocchi però sì (correlazione 0,50, ovvero 50 per cento di probabilità). Se addirittura una vede scivolare l’insegnante, l’altra che le siede accanto avrà quasi le stesse chance (correlazione 1). Calcolare le probabilità che lo stesso evento, con correlazioni così disparate, capiti a due o più persone è ciò che la copula di Li prometteva. Forti di questo modello la banche d’affari potevano prezzare molto più rapidamente sia i Credit default swap (Cds), derivati sul rischio di fallimento di un credito, sia le Collateralized debt obligation (Cdo), ovvero i pacchetti obbligazionari che contenevano grosse quantità di mutui. Il risultato è che si è passati dai 920 miliardi di dollari di Cds scambiati nel 2001 ai 62 trilioni del 2007. Mentre 275 miliardi di Cdo negoziati nel 2000 sono diventati 4,7 trilioni nel 2006. Il Big Bang di Li. Con le schegge di quei titoli tossici che ancora infestano l’ecosistema finanziario.
Ma torniamo dal professor Derman. È in questo settore dall’85, l’ha sostanzialmente fondato con pochi altri («c’erano un paio di libri di testo all’epoca, ora oltre diecimila») e assistito alla sua evoluzione da una dimensione artigianale, quando mettevano la loro capacità analitica a servizio dell’intuito dei trader, a una industriale, dove le loro formule sono applicate senza discutere. «Il grave malinteso è che questi modelli non sono come la legge di Newton, che spiega il moto dei pianeti. Non hanno a che fare con oggetti inanimati, ma con comportamenti umani, intrinsecamente imprevedibili. Per questi motivi non potranno mai prevedere il prezzo esatto di un prodotto finanziario. Ci daranno invece possibili scenari del suo comportamento stocastico». Ovvero indicazioni di come, più o meno, si muoverà nel tempo. Guai a confondere un’opinione scritta sulla sabbia con le tavole di Mosé. Perché, come spiega nel sottotitolo del suo ultimo libro Modelli che si comportano male, «scambiare le illusioni con la realtà può portare al disastro».
Non è la prima volta che mette in guardia dalla sua stessa arte. L’aveva già fatto nel dicembre del 2008 firmando assieme a Paul Wilmott, uno dei più brillanti quant britannici, il Manifesto dei modellatori finanziari, una sorta di giuramento ippocratico della professione. Per l’inglese, meno diplomatico, «non esiste alcun assioma finanziario che non si possa confutare» e bisogna ripensare il sistema al più presto per evitare un’implosione del mercato dovuta a una sua eccessiva matematizzazione. Dire che tutti i modelli sono imperfetti non significa però che siano tutti uguali. Uno dei più celebri, il Black-Scholes del ’73 che serviva a prezzare le opzioni (ovvero il diritto a comprare in una certa data) di azioni è valsa ai due autori il Nobel. Lo stesso Derman deve buona parte della sua fama al Black-Derman-Troy dell’85 che faceva lo stesso, ma per le obbligazioni. «La differenza rispetto alla copula gaussiana» spiega il professore «è che noi cercavamo di replicare il comportamento di un prodotto finanziario che conteneva vari bond estrapolandolo da quello dei suoi singoli componenti. Per semplificare, è come se vi chiedessero di determinare il prezzo di una macedonia a partire dai suoi singoli ingredienti. O l’inverso. Nell’un caso o nell’altro lo sforzo era di ricreare sinteticamente il comportamento del prodotto. La copula invece è differente. Non pretende di capire il funzionamento, ma si limita a un approccio statistico. E neppure studiando i dati storici sui fallimenti dei mutui, troppo limitati e più difficili da recuperare, ma prendendo l’andamento delle loro «assicurazioni», i Credit default swaps, come sintomo della rischiosità dei crediti sottostanti (se si alza il loro prezzo è segno di pessimismo, ndr)». È su questo doppio livello di approssimazione che le agenzie di rating hanno basato certi entusiastici giudizi sullo stato di salute di titoli rivelatisi poi spazzatura. «Il mondo dei Cdo faceva affidamento quasi esclusivamente sulla correlazione a copula» ha dichiarato a Wired Darrell Duffie, professore a Stanford, all’epoca nel comitato scientifico di Moody’s.
Su qualsiasi altro modello si faccia affidamento oggi, è quasi sicuramente un affidamento eccessivo. Prendete Bruno Iksil, detto Voldemort, la nemesi di Harry Potter, alias la «balena di Londra», per l’entità delle operazioni che effettuava per conto di JPMorgan. A maggio si è scoperto che, con speculazioni su derivati sempre più ermetici, aveva accumulato perdite per almeno 2 miliardi di dollari. Di lui si sa poco, non circolano neppure foto, tranne che ha frequentato l’École Centrale a Parigi. La stessa di Fabrice «Favoloso» Tourre, prima orgoglio e poi rovina di Goldman Sachs che, in seguito a sue sciagurate compravendite nel 2010 ha dovuto versare mezzo milione di dollari di multe. Per tacere di Jérôme Kerviel che due anni prima aveva quasi messo in ginocchio Société Générale con acquisti finiti malissimo. Tutti francesi come, in una stima di Le Monde, lo sarebbe circa un quant su tre nel mondo. Dunque discepoli, diretti o indiretti, di Nicole El Karoui, leggendaria prof di matematica finanziaria a Paris VI. Prima che decidesse di non rispondere più a interviste che assomigliavano sempre più ad atti d’accusa contro la categoria nata dai suoi lombi intellettuali, si era limitata ad ammettere che «alcuni clienti non sono abbastanza maturi per capire i rischi di prodotti troppo complessi».
Chiedo a Derman se condivide. «Di certo i modelli possono essere sfuggiti di mano a chi li ha concepiti. E in più occasioni se ne è abusato. Hanno creato una fallace impressione di sicurezza. Ma non riesco proprio a vederli come gli unici colpevoli della crisi. Mi fa più impressione che il mondo si regga ormai sul credito e che la Borsa in particolare usi una leva finanziaria sempre più spericolata. Questa, insieme a una relativa impunità per chi sbaglia, con tanto di salvataggi con denaro pubblico per le banche, è la ricetta per il disastro». Qualche tempo fa l’ex governatore della Federal Reserve Paul Volcker ha pubblicamente castigato il nipote per aver scelto, tra tante professioni oneste, quella di ingegnere finanziario. Lui ha farfugliato («eseguiamo gli ordini») e il nonno ha rispedito al mittente la «difesa di Norimberga». Simil-quant stanno diventando, come nei film Margin Call e Cosmopolis, i nuovi cattivi di Hollywood. Nonché i protagonisti dell’inesorabile ultimo romanzo di Walter Siti. Anche l’immaginario ha preso nota dell’ascesa della nuova élite globale. L’upgrade tecnologico-scientifico dei trader che Tom Wolfe battezzò «padroni dell’universo». Sappiamo chi sono. Cominciamo a capire cosa fanno. Forse potremmo addirittura smettere di considerare i loro codici come feticci.
http://www.cadoinpiedi.it/2012/12/30/co … asino.html