Ammanchi di cassa dell’ amministratore di condominio
Il “nero” che inguaia tutti può salvare invece qualcuno. Specie gli amministrato ridi condominio meno attenti e precisi
Avv. Mauro Blonda scrive…
La regolare tenuta dei registri condominiali è la miglior garanzia per la fedina penale degli amministratori. Il passaggio di consegne tra vecchio e nuovo amministratore rappresenta un momento delicato della vita condominiale in cui è indispensabile attenzione e puntualità, una fase i cui passaggi richiedono trasparenza affinché le varie operazioni siano facilmente riscontrabili e verificabili, nell’interesse di una corretta e proficua prosecuzione della gestione condominiale: questo è possibile quando l’amministratore uscente, svolgendo con serietà il proprio incarico, ha tenuto i registri con precisione, registrando in essi le varie voci di spesa (e di entrata).
Non sempre naturalmente è così ed anzi, nella prassi, non capita certo di rado che il nuovo amministratore si imbatta in situazioni contabili a dir poco complicate da districare, riscontrando, nelle ipotesi meno gravi, inesattezza nei dati contabilizzati o, in quelli più gravi, degli ammanchi.
Orbene, se da una parte è chiaro e pacifico che un ammanco di danaro dalle casse condominiali imputabile al precedente amministratore integra quasi sempre gli estremi del reato di appropriazione indebita di cui all’art. 646 cod. pen., da un’altra non è però detto che ogni ammanco costituisca reato: bisognerà infatti caso per caso verificare la ragione e l’eventuale quindi giustificazione di tali ammanchi e solo ove essi risultino ingiustificabili costituiranno reato. Ma tale accertamento non è così facile come può sembrare.
Gli ammanchi di cassa ed il passaggio di consegne tra amministratori: accertamenti spesso complicati. Lo sa bene un’amministratrice condominiale palermitana la quale, accusata di appropriazione indebita perché riconosciuta responsabile di un ammanco di 20.000.000 di lire, è stata sottoposta a ben 7 processi (di cui 3 in Cassazione) prima di giungere ad una sentenza che dichiarasse definitivamente la sua responsabilità o innocenza: tale vera e propria odissea giudiziaria è stata causata proprio dalla difficoltà di decifrare la situazione contabile in cui l’amministratrice-imputata aveva lasciato il condominio nelle mani del nuovo amministratore.
Riconosciuta in primo e secondo grado responsabile del delitto imputatole e condannata a 3 mesi di carcere, ella otteneva una prima riforma della sentenza in Cassazione riscontrando i supremi giudici un difetto di motivazione nella pronuncia di condanna relativo alle perizie contabili espletate nel corso dei processi: in pratica, secondo la Corte di legittimità, i giudici del merito non avevano dato conto del motivo per il quale le perizie che incastravano l’imputata fossero state ritenute più attendibili di quella che invece prospettava ragioni favorevoli all’ex amministratrice, disposta durante il processo di appello.
Nuovo giudizio di appello e nuovo ricorso in Cassazione. Così le carte (e la palla…) tornavano alla Corte d’Appello di Palermo la quale, tenendo conto delle censure mosse dalla Cassazione, avrebbe dovuto procedere ad un nuovo esame della questione. E tale nuovo esame portava ad una nuova sentenza questa volta di assoluzione: i giudici del gravame, infatti, valutando questa volta predominante e prevalente l’accertamento contabile disposto in sede di appello (il quale aveva ridimensionato l’importo degli ammanchi portandolo dagli iniziali venti milioni alla più modesta cifra di un milione di lire), mandavano assolta l’imputata poiché ritenevano che “quell’ammanco potesse rientrare in uno scompenso fisiologico, e così non fosse indice di dolo”.
La sentenza assolutoria (e la lettura “buonista” data con essa alla situazione) veniva nuovamente ricorsa per cassazione, questa volta dal Procuratore Generale e dal condominio, costituitosi parte civile sin nel primo ed iniziale grado di giudizio di questa infinita vicenda: i Giudici di Piazza Cavour, accogliendo il ricorso, rispedivano nuovamente al mittente palermitano il fascicolo disconoscendo le ragioni assolutorie poiché, a loro diverso avviso, “anche un piccolo ammanco di cassa poteva costituire un’ipotesi di appropriazione indebita” e bacchettando altresì i giudici d’appello perché avevano nuovamente omesso di spiegare compiutamente perché una perizia (questa volta quella più favorevole all’imputata, disposta in appello) fosse maggiormente meritevole di credito dell’altra. (L’amministratore deve sempre restituire le cose ricevute in ragione del proprio incarico)
Ma non basta: ulteriore appello ed ancora Cassazione. Ancora un altro processo in appello, quindi, ad oltre un decennio da quando il fatto contestato sarebbe stato commesso, e nuova assoluzione dell’imputata: i giudici della corte d’appello, nonostante le indicazioni ricevute dai supremi giudici romani, assolvevano infatti nuovamente l’imputata attribuendo agli ammanchi la qualifica di “importi assolutamente secondari”.
Da qui il terzo e decisivo ricorso per cassazione, questa volta formulato dal solo condominio-parte civile, il quale pretendeva un’applicazione più severa dell’art. 646 cod. pen. e pertanto una dichiarazione di colpevolezza anche di fronte ad irregolarità contabili meno cospicue ma pur sempre documentate: a detta del condominio, infatti, “la circostanza che la somma distratta dall’amministratrice fosse minore non avrebbe dovuto implicare automaticamente l’irrilevanza penale del fatto”. A tal fine la parte civile ricordava infatti come la stessa Cassazione, in una precedente pronuncia (la sent. n. 36022/2011) aveva già ritenuto che “il delitto di appropriazione indebita non può essere escluso unicamente in ragione dell’importo esiguo dell’ammanco”.
La risposta definitiva (?) della Cassazione: il “nero” va bene. Anzi, benissimo. La questione è stata quindi nuovamente vagliata dalla Suprema Corte la quale, con la sentenza n. 16209 depositata dalla Seconda Sezione il 14/04/2014, ha confermato l’assoluzione dell’imputata per i fatti di vent’anni addietro, rigettando quindi il ricorso proposto dal condominio, e ciò non perché non vi sia stato l’ammanco o perché questo sia rappresentato da piccole somme (ed in quanto tale non integrerebbe gli estremi del reato), ma perché non è stata raggiunta la prova della colpevolezza dell’imputata.
I Giudici di legittimità, infatti, hanno sentenziato che “pur rilevando un ammanco pari a circa un milione di lire, tale ammanco non è conseguenza dell’accertamento di condotte di appropriazione concreta di somme da parte dell’imputata”.
Appare questa una motivazione per certi versi semplicistica e buonista, poiché la colpevolezza dell’imputato per appropriazione indebita dovrebbe essere ricollegata alla prova (nel caso di specie raggiunta) di ammanchi e non a quella di una materiale ed effettiva appropriazione. Ma tant’è: per la Cassazione l’esistenza di un buco non è sufficiente prova della colpevolezza dell’amministratore che l’ha provocato. (Come tutelarsi da un possibile amministratore truffaldino.)
O per lo meno non lo è nel caso in cui quel buco, di “importo assolutamente insignificante può trovare giustificazione in pagamenti effettuati senza rilascio di fatture o ricevute e neppure contabilizzati perché di modestissimo valore nel corso di due anni”: per la Cassazione, quindi, gli amministratori che effettuino pagamenti in nero e che non ne contabilizzino alcuni, non solo non commettono reati ma possono con tale condotta giustificare dei modesti ammanchi di cassa.
È questo il passaggio meno condivisibile della sentenza in oggetto poiché con essa non solo si incentiva un fenomeno che invece andrebbe fermamente censurato e punito (quello dei pagamenti “in nero”) ma lo si fa diventare anche una giustificazione per quegli amministratori poco trasparenti e precisi che vengono così premiati nella loro attività poco diligente ed assolti, grazie certi comportamenti censurabili, dai reati per i quali chiunque sarebbe invece condannato.
È pur vero che il delitto di appropriazione indebita non può essere punito se non si raggiunge la prova (o non vi siano indizi certi) che gli ammanchi costituiscano il frutto della volontà (cioè del dolo) di appropriarsi della cosa altrui, e che l’accertamento di pagamenti privi di ricevuta e fatture aumentino il sospetto di una giustificazione (extra contabile) di quegli ammanchi e quindi della non prova della sussistenza del fatto-reato, ma sarebbe tuttavia stata auspicabile una censura da parte di un organo così rilevante qual è la Cassazione sull’uso di uno strumento di pagamento irregolare e vietato (il “nero”), anche e soprattutto quale riconoscimento verso la maggioranza degli individui che diligentemente e scrupolosamente osservano tutte le norme, anche di natura fiscale.
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