Ringrazio Andrea SPANU per la traduzione del pezzo di Alberto Martinelli che avevo pubblicato nel testo originario in inglese a luglio scorso e del quale molti mi avevano chiesto, appunto, l’edizione italiana.
Aldo Giannuli
ALCUNI ASPETTI TRASCURATI DELLA CRISI GLOBALE
Lo scopo di questo paper è analizzare alcuni aspetti fondamentali della crisi economica e finanziaria globale, che vengono trascurati o che non sono sufficientemente studiati nella maggior parte dei resoconti in sede scientifica e mediatica in una prospettica sociologica. Mi concentro sugli Stati Uniti – visto che la crisi è nata nel Paese che è il nucleo del capitalismo di mercato contemporaneo – e discuto due aspetti basilari:
a) la cornice cognitiva che ha profondamente influenzato le decisioni fondamentali prese dagli attori istituzionali e privati, sia nei mercati che nell’arena politica,
b) i meccanismi di pressione politica e gli scopi e le strategie di importanti gruppi d’interesse economico.
Più specificamente, inizio col discutere l’orientamento culturale che prevale nelle élites statunitensi a livello aziendale, di governo e di intellettuali, attraverso l’analisi di saggi, dichiarazioni e documenti. Questa cornice cognitiva – sviluppata in università americane di primo rango e anche fuori dagli USA come esempio di rigoroso metodo scientifico – è diventata il pensiero economico dominante. Il suo nucleo è la concezione neo-liberale del mercato che si autoregola, secondo la quale i mercati sono capaci di ripristinare il loro equilibrio ogni volta che fattori esogeni o eventi statisticamente improbabili creano squilibri. I suoi altri principali elementi cognitivi – assieme alla teoria che il mercato sia un ordine spontaneo – sono la predominanza dell’economia virtuale sull’economia reale, una concezione della moneta che sottolinea oltremodo il suo valore simbolico rispetto al suo significato di misura di valore, e una disposizione altalenante nei confronti del rischio e della fiducia.
Per criticare il punto di vista secondo il quale la crisi è semplicemente un risultato di previsioni sbagliate e di eventi imprevedibili, ricostruisco quindi gli scopi, le risorse e le strategie dei processi del lobbying politico nel Congresso degli Stati Uniti e nell’amministrazione, e mostro come siano capaci di influenzare decisioni fondamentali che riguardano le politiche di deregolamentazione, sia indebolendo i sistemi esistenti di controlli costituzionali, sia opponendosi alla nascita di nuove regole per i nuovi prodotti finanziari.
Una migliore conoscenza di questi aspetti della crisi può aiutare ad identificare gli ostacoli fondamentali nell’implementazione delle politiche mirate ad imporre nuove forme di regolazione dei mercati globali, sia a livello nazionale che sovranazionale.
Una crisi strutturale
Libri, saggi e articoli sulle cause, le dinamiche e gli impatti della crisi economica globale e sulla correlata recessione economica sono numerosi e in numero crescente. Esiste una larga convergenza sulla sequenza di eventi che hanno condotto alla crisi (Stiglitz,2008;European Parliament, 2009; United Nation, 2009; US Congressional Research Service,2009; US Government Financial Crisis Inquiry Commission, Final Report, 2011): dalla bolla immobiliare e la crisi dei sub-prime nel mercato americano al rischio di default e al piano di salvataggio federale – con una grande quantità di denaro pubblico – dei due giganti del credito edilizio statunitense, Fannie Mae e Freddie Mac, nonché della più grande compagnia assicurativa, AIG; dalla crisi delle cinque più grandi banche d’investimento americane che erano al centro della finanza globale (il fallimento della Lehman Brothers e l’acquisizione o trasformazione delle altre) al panico finanziario causato dalla vasta proliferazione di prodotti tossici della finanza-ombra, che ha favorito una crisi generalizzata di fiducia nelle banche, nelle aziende e nelle famiglie, contribuendo così alla recessione nell’economia reale.
Tuttavia non si riesce a trovare un accordo altrettanto ampio nelle interpretazioni della natura della crisi (strutturale o congiunturale?), sulle sue cause e dinamiche, sulle responsabilità di attori privati e pubblici, sugli impatti economici, sociali e politici, sulle risposte e sulle strategie di uscita dalla crisi (Cooper 2008, Morris 2008, Soros 2008, Read 2009, Woods 2009, Paulson 2010, Roncaglia 2010).
Data la diversità delle interpretazioni della crisi, devo posizionarmi sulla mappa con qualche breve osservazione. Io considero la crisi globale finanziaria ed economica una crisi strutturale, la prima grande crisi della globalizzazione contemporanea, che evidenzia gli aspetti chiave di una fase del capitalismo mondiale che è durata trent’anni (l’interdipendenza strutturale, la crescita sregolata dei mercati finanziari, delle diseguaglianze e dei disequilibri a livello mondiale). Inoltre sostengo che, per essere compresa, la crisi attuale debba essere inserita in un contesto più ampio e in una prospettiva temporale più lunga. Questa crisi è esplosa nel cuore del capitalismo globale, a differenza delle precedenti crisi regionali come quelle asiatica, messicana e russa durante gli anni ‘90. La causa immediata è stata la bolla americana dell’edilizia e dei mutui sub-prime, che ha provocato una reazione a catena che ha interessato il sistema dei prodotti finanziari correlati, un sistema assai esteso e molto complesso (assicurazioni bancarie sui mutui, obbligazioni collaterali sul debito, credit default swaps e altri tipe di hedge funds). Ma la crisi si è sviluppata in un contesto di grande espansione del benessere e della liquidità, e di crescente interdipendenza finanziaria a livello globale, che ha cause più remote: le nuove politiche economiche della Federal Reserve e di altre banche centrali; l’eccessiva espansione finanziaria (l’esplosione del leverage buy-out, e degli hedge funds attivi soprattutto nel settore dei derivati). Questa continua espansione del credito, l’incontrastata espansione della finanza-ombra, l’attitudine sempre meno cauta degli investitori nei confronti del rischio, il declinare delle agenzie di regolazione, la massimizzazione del valore delle azioni, i guadagni fortunati dei chief executives e degli speculatori finanziari, erano tutti fenomeni che contribuivano ad una serie di crisi finanziarie che le autorità monetarie sembravano, almeno inizialmente, in grado di gestire. Ma la crisi non poteva essere gestita, come la precedente bolla della new economy, attraverso misure tradizionali di politica monetaria, e richiedeva massicce iniezioni di denaro pubblico per salvare grandi sigle finanziarie dal fallimento, sia negli Stati Uniti sia in Europa. La crisi, quindi, ha radici strutturali; e si è propagata molto velocemente al mondo intero.
La crisi è l’espressione traumatica delle contraddizioni della globalizzazione, prima di tutto la contraddizione fra una crescente interdipendenza economica, finanziaria e tecnologica, da un lato, e la continua frammentazione politica, dall’altro, che evidenzia la mancanza di una efficace governance globale (Martinelli, 2003). In questo senso, possiamo definire la crisi come sistemica, specificando che questo termine non implica il collasso del capitalismo globale. A dire il vero, anzi, le crisi strutturali sono il modo in cui il capitalismo si trasforma continuamente. I classici della scienza sociale, da Adam Smith a Karl Marx, da Max Weber a Karl Polanyi, da Joseph Schumpeter a John Maynard Keynes, hanno tutti sostenuto, sebbene in modi differenti, che il capitalismo è intimamente contraddittorio e si trasforma periodicamente attraverso processi di distruzione creativa. Al contrario di quel che sostengono i teorici del mercato come ordine spontaneo da un lato, e i teorici del collasso inevitabile del capitalismo dall’altro, le crisi sono endemiche nello sviluppo del capitalismo, ma non lo distruggono. Questa crisi non è la fine del capitalismo globalizzato, ma segna l’avvento di una nuova fase, dopo le precedenti fasi di trent’anni (prima “i trenta gloriosi” dalla seconda guerra mondiale agli anni ‘70, poi il capitalismo globale dagli anni ‘70 al presente). Questa crisi non implica nemmeno una valutazione negativa dell’intero processo della globalizzazione. La globalizzazione, di per sé, può avere conseguenze sia positive che negative. Sono la coordinazione di politiche economiche e sociali e l’implementazione di regole a livello globale che possono fare la differenza.
La crisi presente è l’espressione delle contraddizioni del capitalismo di mercato globale. La finanza globale si è sviluppata in nuove forme sregolate, e lo ha fatto con un ritmo senza precedenti; l’erosione della sovranità ha reso inefficaci i controlli dei governi e nessuno nuovo sistema di regolazione internazionale e di governance globale l’ha sostituita. Grandi squilibri sono sorti fra paesi creditori, con economie in veloce crescita e sostenute dall’export, alti tassi di risparmio, enormi surplus nella bilancia commerciale e riserve di dollari, come la Cina, da un lato, e paesi debitori con economie dominate dalla finanza e dal consumo di massa, alti livelli di indebitamento pubblico e privato, ed enormi deficit nella bilancia commerciale come gli Stati Uniti. La crescita della ricchezza globale ha ridotto in modo impressionante la povertà in grandi paesi come la Cina e l’India, ma ha anche favorito nuove diseguaglianze economiche e sociali all’interno delle società, fra nazioni in via di sviluppo e nazioni sviluppate, e fra gruppi sociali privilegiati o protetti e gruppi sociali marginalizzati. In più, altre tensioni sorgono costantemente dalle ampie fluttuazioni nei prezzi dell’energia e delle materie prime, spinte dalla crescita della domanda nelle economie che si stanno sviluppando con veloci tassi di crescita. E’ in questo contesto che si è sviluppata la crisi monetaria.
Dato il suo carattere strutturale, la crisi dev’essere interpretata in un orizzonte di lungo periodo (gli ultimi tre decenni). La crisi mostra la natura problematica di una particolare varietà del capitalismo, il modello guidato dal mercato, che è basato sulla nozione del mercato come ordine spontaneo che è capace di autoregolazione. A partire dagli anni ‘70, il capitalismo mondiale è cambiato, non nel senso di trasformare i suoi elementi fondamentali e la sua visione del mondo (il ruolo centrale del mercato e delle aziende, la forza determinante della scienza, della tecnologia e dell’innovazione, e l’autotrasformazione attraverso periodiche crisi endogene e processi di distruzione creativa), ma nel senso che si è globalizzato ad un livello senza precedenti in virtù della rivoluzione delle telecomunicazioni e del collasso del più grande modello antagonista di organizzazione economica (cioè il modello sovietico di pianificazione statale). In questo processo senza precedenti di globalizzazione, una delle varianti storiche del capitalismo – quella anglosassone basata sul mercato – è divenuta egemonica.
Il cambiamento negli anni ‘70 può essere spiegato in termini di variabili economiche strutturali (innovazione tecnologica, competitività crescente, cambiamenti nel commercio mondiale, politica monetaria espansionista, enorme aumento nella quantità di denaro in cerca di investimenti fruttuosi); tutti questi fattori si sono uniti e hanno contribuito a corrodere gli assetti oligopolistici della fase precedente. Ma questo assalto dal basso, proveniente dai nuovi e aggressivi “animal spirits” imprenditoriali, non avrebbe avuto un così grande successo senza uno spettacolare cambiamento dall’alto, nel clima culturale e nelle politiche economiche delle nazioni sviluppate. La stagflazione degli anni settanta, che fu generata fra le altre cose da forti incrementi del costo dell’energia e delle materie prime e dall’innalzamento dei salari, provocò uno slittamento di prospettiva dei “decision makers” dal problema della domanda aggregata (e la relativa politica economica di stampo keynesiano) ai problemi del sostegno ai fattori di produzione (e la relativa politica economica nota come “supply-side”). Prima l’amministrazione Reagana negli Stati Uniti, poi quella Thatcher nel Regno Unito, e in seguito i governi di vari altri paesi sviluppati e in via di sviluppo, adottarono queste politiche di sostegno dell’offerta, consistenti in un’estesa deregolamentazione, nelle privatizzazioni, nei tagli di tasse e in una politica monetaria espansiva.
L’azione combinata di quelle politiche economiche e le grandi opportunità aperte per i prodotti e i processi di innovazione e per la crescita dei mercati da parte delle telecomunicazioni, attraverso la costruzione di network di interdipendenza globale, favorirono una notevole crescita del PIL in diversi paesi emergenti (prima di tutto la Cina, l’India e il Brasile), così come una crescita continua delle nazioni già sviluppate; ma, dall’altro lato, causarono la sovraespansione della finanza rispetto all’economia reale (con un eccesso di ricchezza in cerca di crescenti guadagni finanziari), la predominanza del controllo finanziario e di una visione di breve periodo nella condotta delle corporation, la crescita delle ineguaglianze fra e dentro le società nazionali, e anche serie minacce alla sostenibilità ambientale e sociale.
Le altre principali varianti del capitalismo (il modello economico dell’Europa continentale, cioè “l’economia coordinata di mercato”, e quello giapponese “neo-paternalistico”), si sono mosse in direzione del modello egemonico, quello dominato dal mercato, assumendo che quest’ultimo fosse il più competitivo. Un simile percorso è stato seguito dalla Cina – l’economia emergente che cresce più velocemente e il più rilevante esperimento di “economia di mercato socialista”.
Per spiegare per quale motivo la variante “di mercato” del capitalismo è divenuta egemonica, è importante definire la cornice cognitiva che l’ha legittimata, perché una caratteristica fondamentale della crisi finanziaria globale è l’orientamento culturale prevalente nelle élites finanziarie, d’azienda, dei governi e intellettuali. Al centro di questa cornice cognitiva c’è la concezione neo-liberale del mercato autoregolantesi, secondo la quale i mercati sono sempre capaci di ristabilire il loro equilibrio ogni volta che fattori esogeni o eventi statisticamente improbabili creano sbilanciamenti. Le teorie economiche dominanti sviluppatesi nelle migliori università americane, e non solo americane, hanno frainteso una fase (gli ultimi tre decenni) dello sviluppo economico come il corso normale del capitalismo; hanno ritenuto la deregolamentazione dei mercati finanziari come la migliore politica e la crescita esplosiva della finanza globale come la strada più efficace per la crescita (Rajan, Zingales, 2003). Una formulazione specifica di questo paradigma è stata la teoria dell’autoregolazione dei mercati finanziari di Markowitz, che si basava essenzialmente su una premessa centrale: l’interesse accorto di proprietari e manager delle istituzioni finanziarie li avrebbe condotti a mantenere una sufficiente attenzione contro l’insolvenza, monitorando con attenzione il capitale e il profilo di rischio delle loro aziende. A partire dagli anni ‘50, quando fu formulata originariamente, questa teoria è sembrata incontestabile, ma l’attuale crisi finanziaria ha mostrato che è falsa, come hanno riconosciuto anche veri fedeli di quella teoria come Alan Greenspan.
Questa cornice cognitiva fu la base del “Washington consensus”, cioè quel pacchetto di riforme suggerito dal fondo monetario internazionale e dalla banca mondiale a coloro che avevano il compito di formulare le politiche economiche, e che spingeva a privatizzazioni, deregolamentazione, all’apertura agli investimenti stranieri diretti, alla liberalizzazione delle importazioni, a tassi d’interesse e di cambio determinati dai mercati, il tutto accompagnato dalla riduzione della spesa pubblica, della disciplina fiscale e di una tassazione moderata e diffusa.
Altri elementi-chiave di questo orientamento culturale sono stati la predominanza dell’economia virtuale su quella reale e una concezione della moneta che ne sottolinea oltremodo il valore simbolico. Molto velocemente si è sviluppato un predominio della finanza: gli asset finanziari globali sono cresciuti in modo spettacolare; un numero crescente di investitori ha iniziato a comprare prodotti finanziari sofisticati, sempre più separati dall’economia reale, in cerca di guadagni più alti ma sottostimando il fatto che in tal modo crescevano anche i rischi (gli strumenti finanziari derivati scambiati sul mercato sono schizzati da 12,047 miliardi di dollari statunitensi nel 1997 a 82,817 miliardi di dollari nel secondo quarto del 2008 (IMF,2009,180). La maggior parte dei chief executives hanno adottato un modello di controllo aziendale che concepisce l’azienda in termini puramente finanziari, e secondo il quale ogni unità produttiva viene valutata secondo la sua capacità di generare guadagni in breve termine per coloro che detengono azioni, mentre gli investimenti di lungo termine vengono ignorati (Fligstein, 1990).
La componente simbolica della moneta come sistema di rappresentazione astratto ha oscurato l’altro basilare significato della moneta come misura di valore, basata sulla produzione e sullo scambio di concreti beni e servizi. Il risultato è che i simboli monetari sono divenuti oggetti di scambi astratti, che hanno luogo nel loro mondo virtuale e da nessun’altra parte. In più, l’informazione – che dovrebbe essere un elemento basilare nel comportamento razionale dei mercati competitivi – è mancante. L’incertezza che si diffonde nei mercati finanziari durante la crisi è stata in effetti provocata dalla mancanza di informazioni crica la natura e il volume dei contratti esistenti, con il risultato che i creditori non sanno nemmeno chi siano i loro debitori.
Questa cornice cognitiva è stata presentata come esempio di metodo scientifico rigoroso e ricompensata da riconoscimenti accademici e premi Nobel. A dire il vero, applicare sofisticati modelli matematici al calcolo dei rischi e dei guadagni sugli investimenti e all’ingegneria finanziaria non è meno ideologico di altre teorie di scienza sociale meno sofisticate. La maggior parte degli economisti che applicano questi modelli complessi per profilare i rischi di prodotti e strategie di management non li hanno pienamente compresi, ma li hanno entusiasticamente accettati come incontestabili, visto che garantivano alti guadagni e alimentavano l’illusione che i rischi potessero essere evitati trasferendoli su altri soggetti. Questo sofisticati modelli hanno così legittimato nuovi prodotti ad alto rischio nell’innovazione finanziaria, e hanno favorito una visione di breve periodo e il controllo finanziario nel management delle aziende, nonché la politica monetaria espansiva della Federal Reserve e del Tesoro americano.
Una parola di cautela per non essere frainteso. Criticare la teoria del mercato che si autoregola non significa negare il ruolo del mercato come meccanismo istituzionale centrale nell’organizzazione del processo economico (la superiorità del mercato aperto sulla pianificazione statale è stata dimostrata dalla storia). Avere troppo poco mercato ha conseguenze negative gravi quanto l’opposto, cioè l’avere troppo mercato. Non è il ruolo fondamentale del mercato che viene qui messo in discussione, ma il fondamentalismo mercatista e la mancanza di regolamentazione. Di conseguenza, sia un eccesso sia un difetto di regolamentazione statale e di intervento governativo devono essere evitati. L’efficienza economica e la coesione sociale sono meglio raggiunti quando un sistema efficace di “checks and balances” esiste fra gli attori e le istituzioni del mercato, lo stato, la società civile, e quando vengono ricercati compromessi ragionevoli in vista della libertà, dell’eguaglianza e della solidarietà. Negli ultimi trent’anni di capitalismo globale c’è stato un eccesso di mercati senza regole, una crescita delle disuguaglianze, e una corrispondente mancanza di controlli governativi e di politiche redistributive. In altre parole, abbiamo assistito a troppa libertà nello sfruttare le capacità finanziarie e a troppo poca eguaglianza d’opportunità, così come ad una doppia riduzione del concetto di libertà, perché si è teso a ridurre la libertà alla sola libertà economica, e a sua volta si è teso a ridurre la libertà economica alla sola produzione di denaro attraverso il denaro.
Questo aspetto cognitivo della crisi, cioè la posizione egemonica dei teorici del mercato che si autoregola nella scienza economica, è rilevante e lo è in molti modi. Prima di tutto, ha fornito una legittimazione “scientifica” per quegli attori finanziari che hanno adottato un tipo di comportamento non solo arrogante e avido, ma che sottovalutava anche i rischi; l’autoregolazione non ha avuto luogo e la capacità di moltiplicazione finanziaria del denaro è stata eccessiva, favorendo enormi guadagni in percentuale rispetto al capitale effettivamente investito, ma anche altissime perdite. Prendiamo il caso di uno degli hedge funds più famosi, il Long-Term Capital Management (LTCM) fondato nel 1993 da John Meriwhether, con due premi Nobel per l’economia come partner (Myron Scholes e Robert Merton): quando entrò in crisi nel 1998, il fondo era esposto per 100 miliardi di dollari e aveva un capitale di appena 1 miliardo, con un leverage di 100, così che una modesta perdita dell’1% era sufficiente a disperdere l’intero capitale posseduto e ad andare in bancarotta. I disastrosi fallimenti di singoli hedge funds, come il LCTM, Amaranth (che perse 6,6 miliardi di dollari in derivati nel settore dell’energia), Vega Selected Opportunities e molti altri, furono sottostimati e perfino ignorati, perché il fatto che questi crash non conducessero ad una grande crisi finanziaria era visto dai policy-makers, quali Greenspan e Bernanke, come la prova della saldezza del sistema. Tuttavia, la convinzione che l’autoregolamentazione degli investitori stessi fosse sufficiente e che non ci fosse dunque alcun bisogno di una regolazione dall’esterno si è rivelata drammaticamente sbagliata. Come disse Greenspan nell’ottobre del 2008 , in un’audizione al Congresso sulla crisi finanziaria: “per esistere si ha bisogno di un’ideologia: la domanda è se essa sia accurata o no. E quello che sto dicendo è che sì, ho trovato una falla”. In altre parole, la cornice cognitiva è importante, e può essere sbagliata.
In secondo luogo, cosa ancor più importante, questa cornice ha legittimato gli enormi guadagni di altri gruppi sociali (oltre agli investitori finanziari), così come i chief executives delle aziende (la cui paga era ingigantita dalle stock options), gli avvocati, i consulenti d’affari, gli auditori, i consulenti dei governi, gli opinion-makers, e ha fornito argomenti ai lobbisti per affermare che l’esplosione della finanza sregolata era un bene per l’intera economia.
Terzo, ha generato un clima di euforia nelle famiglie americane, convincendole che i prezzi delle abitazioni avrebbero continuato a salire, che il credito al consumo avrebbe continuato ad espandersi, e che i nuovi prodotti finanziari che erano certificati dalle agenzie di rating (che avevano un chiaro conflitto d’interesse) erano sicuri, perché i rischi erano garantiti dalla interconnessione delle istituzioni finanziarie.
Bisogna dire che non tutti gli economisti non previdero la crisi e sottostimarono il rischio sistemico. Solo per fare qualche esempio, da molto tempo Kindleberger (1978) aveva messo in allarme sul rischio di una inflazione dovuta all’aumento dei prezzi delle azioni e delle case. Godley (2007), Kregel (2007) e gli altri membri del Levy Economics Institute espresso seri dubbi sulla sostenibilità della crescita dell’economia americana. Altri ricordarono la teoria generale delle crisi finanziarie di Minsky (1982). Roubini e Uzan (2006) insistettero sul rischio d’esplosione della bolla immobiliare. Perfino il FMI, nel suo Global Financial Stability Report del settembre 2006, appena prima della crisi, notò, nel suo linguaggio come al solito assai cauto, che “i mercati sono preoccupati sulle possibilità di mancanza di liquidità sui mercati per alcuni dei nuovi e complessi strumenti finanziari, come i prodotti di credito strutturati” (IMF, 2006, 1). Nelle pagine successive il Report continua, avvertendo che, se la crescita avesse rallentato o l’inflazione si fosse alzata, sarebbe stato “ragionevole domandarsi se i mercati finanziari avrebbero reagito a sviluppi meno favorevoli in un modo capace di amplificare – piuttosto che di bloccare – il rischio emergente. In particolare, si sollevano preoccupazioni sul potenziale di illiquidità che potrebbe emergere in risposta a tensioni inaspettate sui mercati a causa dei nuovi e complessi strumenti finanziari”. Altri economisti come Dodd (2002), argomentarono che se gli hedge funds non potevano dimostrare di essere capaci di un’effettiva autoregolamentazione, allora la cornice normativa avrebbe dovuto provvedere alla supervisione e alla sorveglianza sui mercati; e, più specificamente, se avessero guadagnato posizioni sui mercati delle assicurazioni e dei derivati, avrebbero dovuto essere soggetti ad ampi requisiti di rendicontazione sulla loro posizione.
Il potere delle lobby e la debolezza delle regolamentazione
Questo fondamentalismo del mercato che si autoregola è una delle cause principali della crisi. Ma se l’autoregolazione dei mercati non ha funzionato, perché non ha funzionato nemmeno il sistema che doveva regolamentarli – cioè il secondo riparo contro le crisi? In altri termini, se gli attori finanziari hanno coscientemente abbandonato regole di prudenza nell’esposizione del capitale e nella valutazione del rischio per le ragioni che abbiamo elencato sopra, perché anche i regolatori hanno abbassato la guardia? Qui ci sono tre livelli di spiegazione:
a) il primo riguarda gli errori nelle politiche e nelle previsioni delle autorità di regolamentazione
b) il secondo sostiene che la globalizzazione riduce enormemente l’efficacia di molti strumenti tradizionali della politica economica, incluse le politiche monetarie e dei tassi di cambio
c) il terzo sottolinea il ruolo lobbistico di una potente coalizione di gruppi di pressione, che avevano chiari interessi nello spingere verso la deregolamentazione e nel rendere i controlli esistenti inapplicabili e inefficaci.
Mi soffermerò solo brevemente sui primi due, per poi concentrarmi sul terzo. Per quanto riguarda gli errori di previsione e i fallimenti delle policy, questi sono dovuti più che altro a quella cornice cognitiva predominante che ho criticato sopra. I regolatori erano fortemente influenzati e non potevano confrontarsi in modo efficace con una situazione caratterizzata da nuovi e altamente complessi strumenti finanziari, che contribuivano a rendere obsoleti i meccanismi di controllo tradizionali. Questa osservazione solleva la questione della relazione fra innovazione (una caratteristica fondamentale delle economie capitaliste) e controllo (una caratteristica, altrettanto fondamentale, degli ordinamenti politici democratici), e il bisogno di un’attiva regolamentazione delle innovazioni finanziarie.
Una linea di spiegazione correlata riguardo ai fallimenti delle politiche e all’inefficienza della regolamentazione è il fatto che le crisi precedenti erano state gestite con successo fondamentalmente attraverso la politica monetaria. Le crisi precedenti negli anni ‘90 erano sorte nella semi-periferia del sistema mondiale del capitalismo, oppure, quando esplodevano al centro come accadde per la bolla della new economy all’inizio degli anni 2000, venivano gestite con successo attraverso un’ulteriore espansione del credito (evitando di ripetere l’errore principale della crisi degli anni ‘30). L’applicazione della filosofia monetaria di Greenspan fu efficace nel tenere sotto controllo la crisi senza favorire l’inflazione – attraverso l’accresciuta disponibilità di moneta da parte del Tesoro americano – grazie alla posizione centrale e privilegiata del dollaro, e alla volontà di grandi paesi esportatori e risparmiatori come la Cina e il Giappone di finanziare l’enorme debito pubblico e privato americano per finanziarie il loro più grande mercato d’esportazione. Ma nella bolla immobiliare e dei mutui sub-prime, non ha funzionato nemmeno una politica monetaria basata su tassi d’interesse bassi o addirittura nulli, a causa dell’improvviso ribaltamento della fiducia generalizzata in una diffusa mancanza di fiducia, accompagnato da un cambio di percezione del rischio, da basso ad alto, fra i banchieri, i manager, i risparmiatori e i consumatori. L’improvviso crollo della fiducia e il panico finanziario generalizzato furono peggiorati dall’ignoranza collettiva riguardo alla complessità della finanza, e dalla mancanza di fiducia nelle capacità di autoregolamentazione dei mercati finanziari, nonché nella possibilità, per le autorità monetarie, di ripristinare una situazione di stabilità; in tale situazione, sorge la tendenza generalizzata a salvare se stessi alle spese di altri quando le cose peggiorano.
Per quanto riguarda il secondo tipo di spiegazione, è quasi un luogo comune notare che i mercati finanziari globali integrati possono sfuggire ai controlli e aggirare le regolamentazioni. Questo argomento è ben conosciuto: l’avanzata della globalizzazione è generalmente ritenuta responsabile di problemi per l’autonomia effettiva e nel realizzare la sovranità in pratica. Autori come Shaw (2000) enfatizzano gli effetti di trasformazione delle nuove tecnologie della comunicazione, dell’information processing e del trasporto nel facilitare lo sviluppo di imprese d’affari su scala globale e mercati e servizi finanziari integrati a livello mondiale, così come l’emergere di nuove élites globali. Questi sviluppi pongono gli Stati di fronte a gravi sfide. La globalizzazione erode la sovranità nazionale, le interazioni sociali globali trascendono le frontiere nazionali e riducono l’identificazione con gli stati-nazione e le loro comunità territorialmente delimitate. L’azione tradizionale di governo è soggetta a restrizioni e pressioni che sorgono da oltreconfine. I controlli statali diventano in larga parte inapplicabili, a causa dei paradisi fiscali e dell’alta mobilità del capitale, e la stessa efficacia di strumenti tradizionali di politica economica, come la politica monetaria e dei tassi di cambio, ne risulta assai limitata. L’influenza diretta sui sistemi industriali e finanziari è ridotta, perché le imprese d’affari sfruttano la flessibilità offerta da schemi transnazionali e da scale globali di operatività. Gli stati-nazione competono l’uno con l’altro non solo in termini di politiche per incentivare gli investimenti stranieri, ma anche nell’effettuare minori controlli.
Il problema della governance in un sistema frammentato di stati viene così peggiorato, invece che migliorato, dall’avvento della globalizzazione. Risposte politiche appropriate rappresentano una questione pressante e di per sé problematica. Il tradizionale affidamento sulle attività degli stati sovrani all’interno, e un “bilanciamento di potere” fra gli stati all’esterno, non sembra più riuscire a soddisfare gli osservatori. Una gamma di modelli alternativi di governance globale viene quindi considerata attivamente dagli studiosi di politica e di affari internazionali, ma la loro efficacia dev’essere ancora provata (Martinelli, 2008).
Una tesi basilare di questo paper è che la crisi globale è esplosa non solo a causa di errori di previsione, di fallimenti nelle politiche economiche, di errori di gestione da parte delle autorità di governo; non solo perché la globalizzazione rende inefficaci le politiche di regolamentazione degli stati nazionali, ma anche perché in diversi Paesi, e prima di tutto negli Stati Uniti, i controlli di governo esistenti sono stati smantellati senza che se ne potessero introdurre di nuovi; e questo a causa del successo dell’attività di lobbying da parte di una potente coalizione di interessi con molti soldi a sua disposizione. I policy-makers non sono stati presi di sorpresa a causa della serie altamente improbabile di eventi (la metafora del “cigno nero”, Taleb 2007), bensì perché erano in larga misura impotenti nel controllare, come risultato di precedenti pressioni di specifici gruppi d’interesse (e della prevalente cultura del mercato che si autoregola).
I componenti di questa potente coalizione sono numerosi, e formano una struttura di cerchi concentrici: al centro, i protagonisti della nuova finanza, e prima di tutto le grandi banche d’investimento americane e i loro impiegati ben pagati, ma anche un buon numero di banche commerciali negli Stati Uniti e in altre economie sviluppate, i manager degli hedge funds, analisti finanziari, broker; in un secondo cerchio, i chief executives delle aziende, altamente remunerati, controllori di ditte che erano allo stesso tempo consulenti delle corporazioni che essi dovevano controllare; in un terzo cerchio, membri di corpi legislativi ed esecutivi nonché di burocrazie statali e federali; in un quarto cerchio, i think-tank accademici, gli opinion makers e i media. Quando consideriamo che alla fine del 2007, con la crisi finanziaria già in arrivo, le cinque più grandi banche d’investimento americane distribuirono a poche migliaia di impiegati bonus per un totale di 38 miliardi di dollari, possiamo capire cosa c’era in gioco. E se ci aggiungiamo i bonus e le stock options per i manager delle grandi aziende, le tariffe per i servizi di consulenza, realizziamo che la grandezza degli interessi in ballo e l’ammontare di risorse per perseguire quegli interessi sono molto alti. Grazie a risorse di ricchezza, potere e prestigio, queste famose élites finanziarie, commerciali, culturali e politiche hanno effettuato con successo un’attività di lobbismo e influenzato la politica, in modo da indebolire le regole e i sistemi di controllo.
Fino a qui ho identificato gruppi sociali ricchi e potenti, che sono capaci – grazie alla loro ricchezza e al loro potere – di fare lobby per i loro interessi nel sistema politico americano. Ma la coalizione di interessi dietro alla crisi correnti non è solo potente, ma anche estesa. Il largo consenso per questa economia basata sul capitale finanziario non può essere capito del tutto se non si considera che la coalizione di interessi coinvolta includeva grandi numeri di investitori e consumatori, sebbene con tipi di vantaggi abbastanza differenti; queste persone formano il circolo più esterno, e hanno sia partecipato al boom finanziario sia sono divenute, più tardi, le vittime della crisi finanziaria. La maggior parte di coloro che acquistarono prodotti della “finanza ombra”, e perfino molti di coloro che li vendettero – non sapevano o non riuscivano a capire i modelli matematici e le tecniche di estrapolazione dietro di essi, ma erano persuasi della loro validità come strumenti intelligenti per ottenere alti guadagni trasferendo il rischio su altri. La coalizione che appoggiava l’esplosione della finanza ombra includeva un grande numero di consumatori americani altamente indebitati, che vivevano “al di sopra delle loro possibilità”, come i venti milioni di consumatori che ora corrono il rischio di perdere le loro casa perché non riescono a pagare i mutui, e molti di loro appartenevano a fasce di reddito basse che riuscivano ad ottenere un prestito a un interesse subprime, anche se erano del tipo “ninja” (cioè senza introiti, senza lavoro e senza proprietà che potessero garantire per loro). La tesi sviluppata da Reich in un libro che è uscito nel 2007 appena prima della crisi (senza che vi percepisse alcun segno della crisi che stava arrivando) argomentava che l’americano medio è schizofrenico, visto che, come consumatore e investitore, privilegia fortemente lo stato dell’economia (”supercapitalismo”) mentre come cittadino ha paura – o dovrebbe averne – dei rischi per la democrazia che si sviluppano in un sistema del genere.
C’è un po’ di verità nella tesi di Reich, ma questo non dovrebbe oscurare il fatto che ci sono stati vincitori e perdenti nel capitalismo globale; i vincitori più significativi sono i chief executives e gli speculatori di successo nei mercati finanziari domestici e internazionali. I perdenti sono i lavoratori i cui lavori, le cui condizioni di lavoro e le cui pensioni sono messi a rischio, e gli investitori che non hanno una conoscenza dei prodotti nel loro portafoglio. La distribuzione di ricchezza e reddito negli Stati Uniti e in altre società con economie basate sul capitale finanziario è diventata significativamente più squilibrata. L’insistenza di Barack Obama sul contrasto fra gli interessi di Wall Street e quelli di Main Street non è solo uno slogan politico di successo. E il potere delle lobby finanziarie è assolutamente reale.
L’importanza dell’attività di lobbying nella politica americana, del resto, è ben nota. Ha a che fare con l’architettura istituzionale della politica americana, nella quale la formulazione delle politiche è dispersa in complesse cornici di governo, i gruppi di interesse sono assai influenti e le loro attività sono intense in più punti del processo di policy-making. La storia degli USA è piena di esempi del potere di lobby degli interessi delle aziende e degli sforzi di alcuni grandi presidenti per resistere e diminuire quel potere, da Jefferson a Lincoln ai due Roosevelet (Perrow 2001, Philips 2006, Reich 2007).
Tuttavia, negli ultimi decenni, un nuovo fattore ha significativamente aumentato il potere delle lobby: l’aumento notevole dei costi delle elezioni politiche, in un quadro nel quale le campagne elettorali non finiscono mai e il potere dei mezzi di comunicazione cresce (Martinelli, 2007). Diversi fattori caratterizzano la “campagna permanente” (oltre al breve mandato di due anni di tutti i membri del Congresso e di un terzo dei membri del Senato): il susseguirsi di elezioni federali, statali, locali in momenti differenti, il declino delle tradizionali organizzazioni di partito, la diffusione delle primarie per selezionare i candidati, la crescita dell’impatto dei mass media, la proliferazione dei sondaggi. Come conseguenza di questa aumentata frequenza delle campagne, sono necessari una maggiore organizzazione e una maggiore comunicazione, più sondaggi d’opinione, e il bisogno di denaro è quindi cresciuto enormemente, costringendo i candidati e gli ufficiali eletti a impegnarsi in una costante attività di fund-raising. I costi elettorali crescenti sono una caratteristica comune della politica di massa in tutto il mondo, ma negli Stati Uniti hanno raggiunto nuovi picchi.
Il costo totale delle elezioni americane è più che triplicato nella seconda metà del Ventesimo secolo, da circa 900 milioni di dollari nel 1951-52 a più di 3000 milioni di dollari nel 1999-2000, ed è aumentato in modo spettacolare (più che raddoppiato) a partire dai tardi anni ‘70, sia per le elezioni presidenziali che del Congresso (Ansolabehere, 2003). Gran parte del denaro proviene dai comitati d’azione politica, fatti di manager e lobbisti che raccolgono i contributi da altri manager e partner d’affari. Nello stesso periodo, il numero di lobbisti attivi a Washington si è alzato approssimativamente da 5.500 nel 1977 a quasi 33.000 nel 2005 (Congressional Budget Office). Il numero di avvocati registrati nella Bar Association del distretto di Columbia si è anch’esso alzato da 21.000 nel 1976 a 77.000 nel 2004. Ancor più significativo è un altro indicatore: la percentuale di ex membri del Congresso che sono divenuti lobbisti è cresciuta dal 3% degli anni ‘70 ad oltre il 30% del primo decennio di questo secolo. E le tariffe professionali sono molto cresciute anch’esse: negli anni recenti il salario base di un ex membro del Congresso o dello staff della Casa Bianca con “buone connessioni” è di 500.000 dollari all’anno, ma un ex componente di una commissione o sottocommissione del Congresso può chiedere anche 2 milioni di dollari per fare pressioni sui suoi precedenti colleghi.
Sebbene ne risulti un’immagine di pluralismo organizzato, il sistema per gruppi d’interesse è distorto, perché alcuni gruppi d’interesse che hanno a disposizione più risorse sono molto più influenti di altri (Dahl,1976). Nonostante la forte crescita del numero di gruppi attivi in politica, la predominanza dei gruppi d’affari nella galassia dei gruppi d’interesse a Washington è ancora più pronunciata ora che nel passato (Scholzman and Tierney, 1981, Fligstein 2001). Le corporation – americane e straniere – contano più del 50% dei lobbisti a Washington, le associazioni di commercio aggiungono un altro 18%, laddove i gruppi di cittadini contano solo per il 4,1%, i sindacati per l’1,7%, le minoranza per l’1,3% e il welfare sociale e i poveri per appena lo 0,6% (Ladd,1994). Le corporation e le associazioni di commercio occupano più del 50% dello spazio degli uffici, e le associazioni professionali arrivano terze con quasi il 15%. Perfino in una branca come la politica estera – nella quale l’interesse nazionale dovrebbe prevalere sugli interessi privati e di settore – si avvertono chiari segni di privatizzazione, dovuti alla grande influenza di specifici gruppi d’interesse sulle decisioni che hanno a che vedere con aree fondamentali cmoe il Medio Oriente, e le attività petrolifere e le industrie militari. L’amministrazione di George W.Bush offre la prova dell’impatto degli interessi degli affari sulle decisioni di politica estera. Sebbene studiosi come Lowery e Brasher (2004) suggeriscano che negli USA esiste una politica più aperta nei confronti dei vari gruppi d’interesse, la tesi della predominanza dei gruppi d’affari è nel complesso convincente. La grande maggioranza di questi lobbisti e uomini di legge lavorano per grandi aziende. Dagli anni ‘90 più di 500 aziende hanno uffici permanenti a Washington che danno lavoro a più di 50.000 lobbisti (fra i quali un alto numero di avvocati fra di loro). I gruppi di pressione delle aziende sono largamente predominanti sugli altri gruppi e tendono a diventare bipartisan; più precisamente, preferiscono i Repubblicani, ma sempre di più (dopo la vittoria di Clinton nel 1992 e come risultato degli sforzi di Tony Coelho, capo del comitato elettorale democratico, e nuovamente dal 2006 con la nuova maggioranza democratica al Congresso) cercano di assicurarsi un appoggio in entrambi i campi.
Si possono distinguere due principali approcci di influenza politica: uno è il contributo ai costi delle campagne elettorali, l’altro è il lobbismo pro o contro un determinato aspetto della legislazione. Il primo approccio si estende anche ai candidati che sono più politicamente o ideologicamente distanti, dal momento che anche loro hanno possibilità di vincere le elezioni; ad esempio le grandi banche di investimento hanno dato denaro sia alle campagne elettorali di Obama che di McCain. Il secondo approccio è diretto al partito, ai membri del Congresso e agli ufficiali di governo che possono dare un aiuto a specifici interessi in gioco. Il finanziamento bipartisan contribuisce a spiegare per quale motivo Clinton non sia riuscito a far passare una riforma del sistema sanitario (e Obama l’abbia fatto con difficoltà), dal momento che una grande somma era stata spesa dalle compagnie assicurative, dalle ditte farmaceutiche e dalla associazione dei medici americani per fare pressione non solo sui membri del Congresso non solo dell’opposizione repubblicana, ma anche del partito presidenziale. E questo aiuta a capire perché le decisioni chiave sulla deregolamentazione delle attività finanziarie non siano state approvate durante l’amministrazione Clinton. Reich (2007) sottolinea ironicamente che la volontà mostrata da Clinton di ospitare i leader delle grandi aziende in una notte nella sala Lincoln ha confermato il vecchio detto secondo il quale la Casa Bianca è l’unico albergo nel quale gli ospiti dovrebbero lasciare un cioccolatino sul cuscino.
La crescente importanza delle politiche di pressione dev’essere spiegata non solo per le necessità dei candidati ma anche della volontà di spendere denaro per attività di lobby. Il fattore principale a questo riguardo è la crescente competizione fra settori economici, gruppi d’interesse e singole aziende, che si è estesa dal mercato al sistema politico. La battaglia di Google contro il monopolio di Microsoft nell’industria del software è un caso illuminante. Prima di diventare una società per azioni nel 2004, Google non aveva alcun ufficio a Washington e si vantava di non essere coinvolta nel gioco delle pressioni politiche. Ma tutto cambiò nel 2004, milioni di dollari vengono ora spesi da Google, non diversamente dai suoi concorrenti come Microsoft, Ibm, Yahoo, Sun, Oracle. Nel 2010 Google e Verizon hanno proposto che il Congresso permettesse che i servizi wireless rimanessero liberi da regolamentazioni, contro l’opinione della Commissione Federale per le Comunicazioni (The Economist, 2010). Un caso simile è stato il tentativo di Wal-Mart di entrare nel sistema bancario, tentativo frustrato nel corso di una violenta battaglia con i lobbisti che si opponeva a Washington (Wysocki, 2006).
Fino ad ora, ho discusso esempi di lobby aziendale che estendeva il confronto competitivo dal mercato all’arena politica. Sia nel caso di Google contro Microsoft sia nel caso di Wal-Mart contro l’associazione di banche americane, un lato chiedeva l’applicazione di leggi anti-trust e l’altro chiedeva più deregolamentazione. Ma nel caso della finanza ombra, il lobbismo sulla deregolamentazione è stato molto più potente rispetto alle pressioni sul lato opposto. I lobbisti della finanza ombra hanno agito sia per smantellare i controlli esistenti sia per bloccare nuove misure di regolamentazione, contribuendo così alla crisi globale.
Sono molti gli esempi di lobbismo efficace a favore della deregolamentazione. Uno molto rilevante fu il Gramm-Leach-Billey Financial Services Modernization Act approvato nel novembre 1999, che ammorbidiva drasticamente i controlli e le restrizioni sulle attività finanziarie, abrogando fra le altre cose il Glass-Steagal Act, che fin dall’epoca del New Deal e per oltre settant’anni aveva mantenuto le attività delle banche commerciali separate da quelle delle banche d’investimento, allo scopo di proteggere gli investitori. Si è stimato che le compagnie bancarie e di assicurazione abbiano speso più di 300 milioni di dollari nella loro attività lobbistica sul Congresso per plasmare quella riforma in modo che venisse incontro ai loro interessi (Economists for Obama, 2008). Ancor più rilevante per evitare qualsiasi controllo per i prodotti di finanza derivata fu l’emendamento di Gramm per la legge finanziaria nell’ultimo anno dell’amministrazione Clinton, che liberava i derivati finanziari da qualsiasi forma di controllo, sia dalla sorveglianza della Security Exchange Commission (SEC) sia dal controllo della Commodity Futures Trading Commission (CFTC). Quest’ultima agenzia era stata creata per controllare i contratti che erano stati originariamente introdotti per sollevare le aziende dalle fluttuazioni dei prezzi dell’energia e delle materie prime, e che poi erano degenerati successivamente in prodotti finanziari puramente speculativi, che crescevano velocemente. La CFTC è stata il bersaglio di un’intensa attività di lobbismo. Due capi della CFTC, prima Mary Shapiro e poi Brooksley Born, avevano cercato di regolamentare i futures, ma le loro richieste furono rigettate dalle autorità federali (cioè dal presidente della Federal Reserve, Greenspan, dal segretario del tesoro di Clinton, Rubin, e dal presidente della SEC, Levitt). Nel 2005 il Congresso approvò una legge che autorizzava la CFTC a condurre indagini sul prezzo del gas e obbligava i produttori di gas e i venditori a tenere un registro ufficiale dei prezzi. La legge era appoggiata dall’associazione industriale dei consumatori d’energia, ma trovava una feroce opposizione da parte delle molto più potenti lobby dei servizi finanziari (cioè la Swaps and Derivatives Association, la Bond Market Association, la Securities Industry Association, la Futures Industry Association), che alla fine vinsero. Si tratta degli stessi gruppi d’interesse che avevano fatto lobbismo per esentare dalla regolamentazione le transazioni “over-the-counter” delle materie prime energetiche nel Commodity Features Modernization Act (battezzato più tardi “la clausola Enron”); per ottenere la decisione della SEC di autorizzare l’overleveraging, cioè un aumento di tre volte nella possibilità di indebitamento delle banche d’investimento, portando il leveraging da 1:12 a 1:33; per resistere a qualsiasi tentativo di sottoporre i credit default swaps (il cui valore nominale era stimato ben 58 trilioni di dollari nel 2004) ad un’autorità di regolamentazione; per fermare il progetto di una camera di compensazione per le transazioni finanziarie (progetto che fu effettivamente rigettato da una commissione presidenziale formata da Greenspan, Rubin e Levitt).
Reti simili di gruppi di interesse sono state attive in altre economie sviluppate e in via di sviluppo, dall’Unione Europea al Giappone, ai BRIC, ma negli Stati Uniti sono più aggressive e dilaganti. Vale la pena di notare che questo tipo di pressioni vincenti sulla politica si sono verificate sia con Bush che con Clinton, e con due maggioranze differenti al Congresso, il che mostra – come ho accennato prima – che sebbene i repubblicani siano nel complesso più in sintonia con le pressioni di Wall Street, l’attività di lobbying delle compagnie è bipartisan. Le attitudini dei candidati alle presidenziali del 2008, tuttavia, sono state molto diverse. Sebbene la forza e la pervasività dell’attività di lobbying siano state ampiamente riconosciute tanto dai democratici quanto dai repubblicani, fino ad ora si è fatto ben poco. Obama ha fatto del bisogno di restringere il potere delle lobby un letimotiv della sua campagna elettorale ed un elemento chiave della formazione del suo consenso dalla Casa Bianca, e nei primi due anni di amministrazione è in effetti riuscito a far passare leggi per una maggiore regolamentazione. Ma il potere delle lobby finanziarie è tutt’altro che finito. Vale la pena domandarsi se gli aspetti cognitivi e politici della crisi che ho analizzato fino ad ora siano al momento un ostacolo minore, rispetto al passato, che si frappone all’implementazione di politiche dirette a nuove forme di regolazione dei mercati globali.
Conclusione: sono possibili nuove politiche regolatorie?
Questi fattori sono meno potenti dopo la crisi? Con qualche cautela, direi di sì. La cornice cognitiva del mercato che si autoregola è ancora forte, ma la sua egemonia culturale è meno salda nella scienza economica e più dibattuta fra i politici e nel discorso pubblico. Questi sono segni di un nuovo clima intellettuale, come indicano il revival di tradizioni minoritarie in economia (da quella neo-keynesiana a quella neo-istituzionale) e le crescenti critiche al metodo e alla teoria economica predominante. Solo un esempio: Lawson (2009) critica la professione economica per la priorità data all’acume tecnico rispetto all’interesse per l’efficacia delle ricette, e argomenta che, quando ci si occupa di un sistema sociale aperto, è futile aggrapparsi a metodi matematico-deduttivi ed è necessario adottare approcci alternativi, che si occupino di comprendere le soggiacenti strutture e i meccanismi e le possibilità del mondo reale. La questione non è rifiutare i modelli matematici, ma evitare di basarsi solo su modelli astratti senza rapporti con il contributo di altre scienze sociali e con la storia nello studio dei reali processi economici. Anche l’attribuzione del Premio Nobel per l’economia del 2009 a due studiosi della governance – Olsen (uno scienziato politico) e Williamson (un sociologo economico) è un sintomo di cambiamento. Comunque la versione “mainstream” dell’economia è ancora molto ben rappresentata in università di prima classe e sulla stampa accademica.
Per quanto riguarda l’altro fattore, il potere delle lobby finanziarie nel fare pressioni sulla politica è ancora forte, ma Obama ha ottenuto qualche risultato nel cercare di delimitarlo. Egli è stato capace, almeno in qualche misura, di costruire una contro-coalizione sociale che ha capovolto la precedente strategia neorepubblicana, sviluppata da Reagan. Quella strategia ebbe successo nel porre fine ad una lunga egemonia democratica nel Congresso – che era sostenuta dalla coalizione sociale originariamente formata nel New Deal e consolidata dalla “Nuova Frontiera” di Kennedy e dalla “Grande Società” di Johnson. La strategia di Reagan riuscì a concentrare la tradizionale ostilità delle classi medie americane contro il “big government”, ma non contro il “big business”, e ad integrare due differenti filoni di protesta politica contro le politiche libertarie, cioè il populismo e il conservatorismo. A differenza del populismo della prima parte del ventesimo secolo, con Reagan la critica populista contro le eccessive ingerenze dei politici di Washington e contro i burocrati venne scollegata dalla parallela critica del potere corruttivo delle grandi aziende, dal momento che le élites delle corporation si presentarono come i veri difensori del libero mercato e dell’iniziativa individuale contro l’ipertrofico e inefficace governo federale. Con un notevole capovolgimento ideologico, l’elitismo affarista – che era stato sia il bersaglio che l’avversario del populismo – riuscì ad acquisire una nuova legittimità attraverso quest’ultimo.
La crisi economica ha aiutato Obama a ribaltare questa situazione; nella sua campagna per le presidenziali egli ha promesso di difendere Main Street contro Wall Street ed è stato capace di dirigere nuovamente l’aggressività popolare contro i leader d’affari irresponsabili e contro gli oligarchi finanziari, e ne ha fatto un elemento chiave della sua strategia di formazione del consenso. Una volta eletto, ha cercato di dare un nuovo prestigio pubblico al governo federale adottando misure efficaci per gestire la crisi, regolando la finanza ombra e implementando alcune riforme di base come quella del sistema sanitario. Alla famosa affermazione di Reagan secondo cui il governo era il problema, e non la soluzione, Obama ha risposto che dipende da quello che fa il governo. Le investigazioni giudiziarie sulle operazioni illegali dei manager della Goldman Sachs hanno aiutato, così come la rivelazione degli enormi bonus per i chief executives di banche che erano state aiutate ad evitare il fallimento con il denaro dei cittadini. La riforma di Wall Street targata Dodd-Frank ed il Consumer Protection Act – convertiti in legge da Obama nel luglio del 2010 – sono stati passi importanti nella sua agenda di regolamentazione della finanza. La nuova legislazione include la creazione di una nuova agenzia di protezione finanziaria per i consumatori ed un nuovo super-regolatore finanziario con rappresentanti della SEC, della Federal Reserve e del Dipartimento del Tesoro (il Financial Stability Oversight Council); essa limita severamente l’ammontare di denaro che una banca può investire in hedge funds e private equity funds al 3%; dà alla Federal Reserve l’autorità di ridimensionare le istituzioni che presentano un rischio sistemico per l’economia; esige la registrazione al SEC di aziende che detengono più di 150 milioni di dollari in hedge funds e private equity; riforma il complicato mercato dei prodotti derivati, e prescrive che i prestatari provino che sono in grado di ripagare anche il più semplice dei mutui. La legge è stata enfaticamente presentata come “il più grande cambiamento nelle regolamentazioni finanziarie dagli anni ‘30″. Obama ha detto che gli Americani non avrebbero mai più pagato per “gli errori di Wall Street”, aggiungendo che Wall Street aveva provato a far saltare la legge, ma aveva fallito. La legge in effetti prevede nuove vie di controllo per il rischio finanziario e rende più facile liquidare le grandi aziende in fallimento.
Tuttavia, è chiaramente il risultato di un compromesso pragmatico che mostra la persistente rilevanza delle pressioni sulla politica. La coalizione di interessi che si oppone alla regolamentazione è infatti ancora forte e le relazioni tra mondo finanziario e governo sono ancora molto strette (non nel senso che ci sia una qualche cospirazione, ma semplicemente perché esistono strette relazioni personali fra alti rappresentanti di governo ed esponenti di primo piano del mondo degli affari e del sistema bancario, che occasionalmente si scambiano di posto).
Per concludere, Obama sta cercando di rendere la regolamentazione del sistema finanziario più cogente in modo da evitare future crisi del tipo che abbiamo provato di recente. Ma il consenso che Obama può guadagnare dalla sua politica di regolamentazione finanziaria rischia di essere annullato se le strategie d’uscita dalla recessione economica si rivelassero fallimentari. La crescente influenza del movimento Tea Party (finanziato pesantemente dalle industrie Koch e da altri gruppi affaristici di pressione) e il successo del partito repubblicano nelle elezioni di medio termine del 2010 mostrano che l’ideologia populista, anti-tasse, anti-governo federale è ancora molto forte fra i cittadini americani e che il fattore determinante nel decidere il prossimo presidente sarà, ancora una volta, lo stato dell’economia. Non è abbastanza approvare una legislazione che può rendere meno probabili crisi finanziarie come quella attuale; è necessario avviare una ripresa economica che sia in grado di creare nuovi posti di lavoro e crescita. Ma nell’età della globalizzazione questi obiettivi non possono essere raggiunti dal solo governo americano, bensì nel quadro di una governance multilaterale. Il più importante terreno di prova per una strategia di relazioni più bilanciate fra mercato e politica è infatti una efficace governance globale della crisi economica, che sia capace di stimolare una nuova crescita sostenibile. Le politiche dei governi volte a regolare i mercati e ad ottenere una ripresa economica dovrebbero essere efficaci all’interno ma allo stesso tempo coordinate a livello sovranazionale, e gli attori pubblici dovrebbero agire in armonia con quelli non pubblici, dal momento che l’interdipendenza globale necessita di una governance globale e del coinvolgimento attivo di tutti gli attori principali della società mondiale.
di Alberto Martinelli
traduzione a cura di Andrea Spanu