Cari amici,
Tutta questa libertà che il mercato globalizzato ci regala, sta progressivamente togliendo valore economico ai lavoratori.
Questo processo di globalizzazione e finanziarizzazione dei mercati causa un’ indebolimento sempre più sensibile delle società; la classe media si impoverisce, le disuguaglianze tra ricchi e poveri diventano sempre più sfacciate e arroganti, il futuro si appiattisce e perde di speranza, i giovani hanno poche prospettive di emergere.
Sulla web page di repubblica di oggi che di seguito vi segnalo, ho trovato un articolo che tratta di un nuovo libro dedicato alla perdita di valore del lavoro.
Questo articolo, a mio giudizio, è scritto con giudizio, e descrive compiutamente il problema che oggi è d’ attualità per moltissimi lavoratori precari, i quali convivono con un presente scarso e un futuro incerto.
Ciò che manca, a mio giudizio, è un approfondimento sulle cause di questa situazione.
Il punto della questione, infatti, è che il mercato non è così democratico come si vuol far credere; in effetti esso soffre della suddivisione tra chi ha il potere di imporre il valore economico e chi è costretto a subirlo, a causa della contingente debolezza contrattuale.
In altre parole il mercato è una giungla in cui ci sono pochi pesci grossi che impongono la loro volontà su una moltitudine di pesci piccoli e isolati.
La globalizzazione ha accentuato la possibilità di crescita dei pesci grossi, che oggi sono cresciuti così tanto che non è più possibile farli fallire.
A causa di questa ingombrante presenza di pesci troppo grossi, la logica di mercato non vale più per tutti, con la conseguenza che I pesci piccoli se falliscono devono pagare di tasca loro; i pesci grossi, invece, anche se meriterebbero di fallire, alla fine vengono salvati proprio dai pesci piccoli.
Questa è l’ enorme ingiustizia che alla fine crea povertà e disuguaglianza sociale.
Chi difenderà i residenti dal mercato? Questa è la domanda per il futuro!
Gli stati devono organizzarsi e fare fronte comune per difendersi dai mercati globalizzati.
Non possiamo sperare di vincere da soli, perchè i soldi naturalmente corrono dove c’ è più speculazione, non dove si creano le convivenze più eque e solidali.
Fino a che il denaro deciderà che cosa è importante, non avremo la possibilità di orientare l’ economia verso gli interessi della gente.
La Repubblica
AL tempo in cui esplode il disagio giovanile per la mancanza di prospettive che la maggior parte delle nuove generazioni vive come una certezza, analizzare ciò che non è più aiuta a riflettere mentre, per non cedere al pessimismo spesso sterile, è almeno utile cercare un’alternativa a quel che si è perduto. Ed ecco allora la sfida più intrigante, quella di restituire valore al lavoro, a quel collante sociale che, almeno fino a qualche decennio fa, ha funzionato per i giovani come strumento finalizzato a realizzare aspettative e aspirazioni. Per riuscire a riaccendere finalmente un futuro ormai coperto di ombre, facendolo di nuovo percepire come possibile.
Va dritto allo scopo La malattia dell’Occidente (Laterza), il nuovo saggio di Marco Panara, in libreria da qualche settimana e già alla seconda edizione, che indaga intorno al malessere diffuso nei paesi industrializzati a causa dell’impoverimento di operai e impiegati e indica nel crollo del concetto di lavoro come obiettivo centrale e rassicurante, il cuore dell’attuale stato di crisi. Scandaglia Panara il percorso che ha portato alla situazione che è ormai sotto gli occhi di tutti e analizza le motivazioni del perché, in Occidente, “il lavoro non vale più”.
Che cosa era per noi il lavoro e qual è il metro con cui oggi lo consideriamo? Sostiene Panara che il fattore umano, insidiato dalla tecnologia e dalla globalizzazione, è evidentemente in declino e che, di conseguenza, il reddito di
interi gruppi sociali, è andato in caduta libera, con la quota destinata al lavoro calata nei paesi industrializzati di ben 5 punti. Di qui la perdita del valore del lavoro, non solo in termini economici, ma anche (e soprattutto) del suo appeal morale e sociale.
Ma, poiché tra lavoro e democrazia c’è un rapporto che sta al di sopra dei contingenti mutamenti economici e di costume, ricostruire questo irrinunciabile legame diventa il grande obiettivo del futuro. Restituire al lavoro la dignità sociale e culturale, come anche la nostra Costituzione gli attribuisce, va oltre il riconoscimento del suo valore economico e di sopravvivenza, che pure costituisce il motivo per cui i giovani tuttora aspirano a un’occupazione remunerativa e non temporanea. Ed è questa l’unica via d’uscita per una classe politica che, nei tempi attuali, dovrebbe vedere nella rifondazione del valore sociale del lavoro, il progetto più moderno e più urgente da realizzare.
Tutti vogliono un lavoro, eppure il suo valore è in declino. Che cosa succede in Occidente?
“La tecnologia e la globalizzazione hanno cambiato le carte in tavola: la tecnologia distrugge il lavoro – molte cose che prima dovevano essere fatte dall’uomo ora possono farle le macchine – e l’apertura di tutti i confini ha messo in competizione un miliardo e mezzo di lavoratori poco pagati e senza diritti dei paesi emergenti, con 500 milioni di lavoratori ben pagati e tutelati dei paesi industrializzati. L’esito di tutto ciò è che in Occidente, da 25 anni a questa parte, diminuiscono i lavori operai e impiegatizi, quelli che assicurano redditi medi, distrutti appunto dalla tecnologia e dalla globalizzazione e aumentano i lavori più poveri. Con la conseguenza che la quota della ricchezza prodotta che va al lavoro diminuisce e quella che va al capitale invece aumenta. L’esperienza di ciascuno di noi è piena di testimonianze in questo senso, intere categorie hanno visto diminuire progressivamente il loro reddito e il loro prestigio sociale, mentre siamo letteralmente circondati da persone anche qualificate che lavorano con remunerazioni molto basse o con tutele basse o inesistenti: è anche questo il modo in cui il lavoro si impoverisce”.
Il lavoro era un valore sociale sicuro per i ragazzi del boom, che cosa è per i giovani oggi?
“Il valore economico e quello sociale del lavoro vanno di pari passo. Tra gli anni ’50 e gli ’80 del secolo scorso c’è stata l’epoca d’oro del lavoro, le economie dei paesi industrializzati crescevano e il lavoro conquistava reddito e diritti. Il lavoro era lo strumento per realizzare le proprie aspirazioni, esprimere il proprio ruolo nella società, creare un futuro migliore per sé e per i propri figli. Poi è cominciato il declino, lento ma costante. Perdendo valore economico, il lavoro ha perso anche valore sociale, culturale, politico aprendo lo spazio ad una visione più individualistica e frammentata della società. E l’impressione è che i giovani il lavoro lo desiderino, per conquistare la loro indipendenza e avviare un progetto di vita, ma non ci credano troppo, non riescano ad affidargli quelle aspettative che una generazione fa erano realistiche e oggi lo sono invece molto meno.
Qual è la sfida dei nostri giorni?
“La più affascinante che si possa affrontare: ridare valore economico, sociale, culturale, politico al lavoro. Non è una questione di ruolo del sindacato e di rapporto tra lavoro e capitale in senso classico. E’ una cosa più sostanziale, dobbiamo creare lavori che valgano intrinsecamente di più e formare persone in grado di farli. Se il lavoro ha una sua forza economica crescente trascina con se tutto il resto, migliora l’equilibrio della società diminuendo le disuguaglianze che invece il declino del valore del lavoro ha accentuato, rende più solida la democrazia. più sostenibile lo sviluppo dell’economia. Questo è il solo vero antidoto al declino, la cui ombra da un po’ ci accompagna”.
Marco Pamara
La Malattia dell’Occidente
Laterza
pag 150, euro 16
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