C’è un vuoto normativo – fatto rilevare dalla Corte di Cassazione – a causa del quale in buona sostanza le norme sulla privacy che regolano l’installazione delle telecamere di sorveglianza in certi casi non si applicano.
Il problema è venuto alla luce quando la Suprema Corte ha dovuto esaminare il caso di una donna assegnataria di un’abitazione nella palazzina dell’ex suocero.
Quest’ultimo aveva fatto installare delle telecamere che puntavano sul portone d’ingresso e sull’accesso ai piani (avendo ricevuto minacce in precedenza e volendosi proteggere), telecamere che facevano sentire la donna – non più moglie del figlio del padrone di casa – sorvegliata dall’ex marito.
Così questa si era rivolta al Tribunale, che in effetti le aveva dato ragione facendo riferimento alla violazione della privacy, e aveva ordinato la rimozione delle telecamere.
Di ricorso in ricorso il caso è andato avanti sino alla Cassazione, i cui giudici hanno però rilevato con la sentenza numero 14346 che il proprietario unico di un immobile ceduto in affitto o in comodato, per il quale non si sia costituito il condominio (come per l’appunto nel caso della donna), ha tutto il diritto di installare le telecamere: la legge sulla privacy esclude infatti i proprietari unici, che possono monitorare anche le parti comuni purché «per fini esclusivamente personali».
Il problema della mancanza di una legislazione chiara in materia di privacy per questi casi si applica anche ai condomini: nella stessa sentenza la Cassazione ricorda che già nel 2008 il Garante aveva segnalato a Parlamento e Governo «l’inesistenza di una puntuale regolamentazione della materia».
In particolare «non sono stati identificati né i soggetti la cui manifestazione di volontà è necessaria nel contesto condominiale per svolgere tali trattamenti (i proprietari e i titolari di diritti reali parziari o anche soggetti diversi, primi fra tutti i conduttori), né le eventuali maggioranze da rispettare».
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